Dottore carissimo, non è trascorso tanto tempo, solo poco più di un anno, da quando io sono venuto nel suo studio. Eppure sembrano passati molti decenni. Finalmente sono guarito da tutti quei problemi che, per tanti anni, mi hanno impedito di viaggiare. Adesso sono un uomo completamente diverso. Più padrone dei miei nervi e delle mie paure.
Tutto questo è merito suo, caro dottore. Lo penso mentre osservo, attraverso l’oblò, l’immensità azzurra dell’oceano estendersi, oltre il porto di Queenstown, fino all’orizzonte. Io, lei lo ricorderà sicuramente, sono quel paziente inglese che tanto desiderava viaggiare per mare. Ma il semplice fatto di salire sopra una barca, piccola o grande, era sufficiente per scatenarmi violente vertigini e nausea. Questo accadeva anche se l’imbarcazione era ancora ormeggiata in porto. Si figuri se decidevo di viaggiare sull’acqua! Come quella disgraziata volta, da bambino, in gita con i miei genitori sul mar Baltico a bordo di un piroscafo. Restai chiuso due giorni in una torrida cabina, pallido come un lenzuolo, lontano dal cibo per non vomitare anche l’anima. Non andò meglio in barca a vela sul Tamigi. Dovetti tornare a riva, dopo pochi minuti di navigazione, tormentato da formicolii e paralisi delle estremità.
La definizione, datami da medici consultati prima di lei, che io soffrissi di presagi funesti o avvertissi paura nei luoghi instabili, non mi soddisfaceva granché. Io pativo soltanto il mal di mare. Mi ero, tuttavia, quasi rassegnato a vivere sulla terraferma, quando seppi che lei aveva curato e guarito un mio amico, sofferente dei miei stessi problemi, con delle cure omeopatiche. Venni, tra dubbi e speranze, nel suo studio. Non volevo illudermi. Pregavo, dentro di me, di avere trovato qualcuno che curasse questi miei mali. Ricorda il nostro primo incontro?
L’inizio non fu dei migliori. Alla vista del quadro, appeso alla parete dietro la sua scrivania e raffigurante una nave in balia di una tempesta, vomitai sul suo bel tappeto persiano. Le mie mani, subito dopo, iniziarono a tremare e, prima di svenire, una grande debolezza piombò sui miei poveri muscoli. Lei si mostrò molto comprensivo. Tirò giù il quadro dalla parete e attese, con pazienza, che io mi riprendessi. Mi visitò. Infine mi garantì che, se avessi preso il rimedio Cocculus indicus, sarei potuto salire su qualsiasi nave senza avvertire il minimo problema.
Ebbene, caro dottore, lei aveva perfettamente ragione. Oggi le scrivo mentre, seduto in questa cabina di prima classe, attendo la partenza della nave. Sto benissimo. Sento lontane le paure di un tempo. Respiro la certezza di essere davanti ad una grande avventura. Ecco arrivare il suono, lungo e ripetuto, della sirena della nave. E’ l’annuncio della partenza. Ci dirigiamo verso il nord dell’oceano atlantico. La mia prima crociera sta per cominciare. Altro che presagi funesti. Cosa si può temere, caro dottore, quando si viaggia su una nave così grande e così sicura?
Cordiali saluti, da un paziente a lei grato per l’eternità.
Titanic, 11 aprile 1912