BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XII • Numero 46 • Giugno 2023
Rendere il Pianeta calcolabile, vale a dire rendere anche l’Antropocene una categoria geofisica
Per introdurre quest’argomentazione che, attraverso una narrativa a tonalità scientifica, racconta piuttosto un processo di brame geopolitiche e biopolitiche, istituendo persino l’Antropocene come categoria geofisica, seguirà la metafora della fabbrica della previsione meteo di Lewis Fry Richardson, come fa Erik Isberg nel suo saggio A new Earth rises [1], nel quale sostiene che il Pianeta sia l’oggetto politico del XXI secolo sostituendo lo stato-nazione. Prendo a prestito il traslato solo come artificio per iniziare il discorso ma è lontano dalle mie intenzioni assumere, dogmaticamente, il contenuto ideologico che tale immagine, come qualsiasi immagine, porta con sé. Non è cifra del progetto editoriale BIO la semplificazione. In qualità di direttore responsabile di quest’iniziativa, dubito delle promesse di soluzioni di salvezza e tratto con prudenza l’entusiasmo utopistico sia nel nome della scienza che dell’umanità stessa. Con uguale perplessità viene considerato l’ambientalismo che implicitamente colpevolizza il comportamento delle popolazioni umane e, addirittura, del singolo individuo, come se popolazione e individuo fossero agenti dotati compiutamente di vita propria e di autodeterminazione anzichè degli abitanti di narrative proposte dai biopoteri che si contendono, con le loro biopolitiche, cittadinanze e cittadini.
Ad ogni modo, l’idea di seguire Erik Isberg nel fare riferimento alla fabbrica delle previsioni meteo di Richardson sarebbe, ugualmente, quella di introdurci ad una prospettiva che potremmo chiamare planetarismo, cioè una visione in cui lo stato-nazione si scopre come un’entità incapace di affrontare una cosiddetta questione climatica che potrebbe essere approcciata soltanto da un governo planetario, stando ai think tank [2] delle lobby che si contendono la scacchiera geopolitica. Entrare nell’ottica del planetarismo, come soluzione ultima alla questione climatica, richiede, nell’opinione di Isberg, oltreché essere infatuati da una fantasia di dominio totalitarista sulle popolazioni, l’istituzione dell’Antropocene come categoria geofisica.
Per far capire meglio cosa si intenda accennare con l’espressione rendere l’Antropocene una categoria geofisica parto dal concetto stesso di geofisica, scienza detta anche fisica terrestre. Stando ad una definizione generalmente condivisa, la geofisica studia i vari fenomeni fisici, quali i terremoti e i fenomeni elettrici, che avvengono nell’atmosfera, nella superficie e, ugualmente, nell’interno della Terra. Solitamente è stata divisa in tre branche che corrisponderebbero ai cosiddetti tre stadi di aggregazione (solido, liquido, gassoso) della materia che costituisce la Terra. Tuttavia, è convinzione consolidata che, al di là della ripartizione convenzionale in discipline separate, l’oggetto di studio, la Terra, debba essere visto come unico e indivisibile. Per comprendere meglio quest’immagine di nuance olistica, si pensi che, fenomeni come i grandi terremoti, i movimenti periodici delle masse d’aria atmosferiche e lo scioglimento delle calotte glaciali, per citarne i più palesi, producendo uno spostamento di massa, avrebbero effetto sull’asse di rotazione della Terra e sulla lunghezza del giorno.[3] Analogamente, le grandi eruzioni vulcaniche, immettendo ingenti quantità di aerosol nella stratosfera, produrrebbero una diminuzione della temperatura media sulla superficie terrestre, con effetti sensibili sul clima globale.[4]
Ancora si è alla ricerca della spiegazione dei meccanismi che determinano il funzionamento del sistema Terra nel suo insieme e, in particolare, dell’evidente dinamicità della sua evoluzione, di cui sarebbero esempi chiari l’attuale disposizione di continenti e oceani e la distribuzione dei terremoti e dei vulcani.[5] Rendere l’Antropocene una categoria geofisica significherebbe, di conseguenza, considerare che l’impatto del comportamento umano sul pianeta Terra possa essere considerato alla stregua di un terremoto o di un’eruzione vulcanica, vale a dire renderlo oggetto riducibile, quantificabile e inseribile in un modello di simulazione e previsione che, necessariamente, funzionerebbe attraverso misurazioni e calcoli. La via più breve per predisporci a questo percorso di trasformazione, in apparenza scientifica ma lucidamente politica, dell’Antropocene in categoria geofisica mi sembra sia quella di richiedervi di entrare in questa costruzione immaginale denominata fabbrica delle previsioni meteo che Isberg attribuisce a Lewis Fly Richardson.
Immaginiamoci una vasta camera circolare, con le tecnologie degli anni ’20, con pareti ricoperte da un’imponente mappa dipinta del pianeta Terra. Immaginiamoci questa sala come un teatro, tranne per il fatto che i cerchi e le gallerie girano intorno allo spazio solitamente occupato dal palcoscenico. Enormi anelli di posti a sedere a più livelli circondano le sue pareti esterne. Immaginiamoci che in queste sedie lavorino 64.000 esperti in calcoli metereologici (nel tempo che immaginiamo ancora non esiste il computer) ciascuno dei quali prepara previsioni meteorologiche diverse per la geografia che gli sarebbe stata assegnata e al centro della sala, su un grande pulpito in cima a un alto pilastro a più piani, c’è l’uomo responsabile, che coordina i calcoli meteorologici sparsi, provenienti dai suoi calcolisti, in una previsione globale.[6]
Quest’immaginale fabbrica di previsioni sarebbe stato il sogno del matematico e meteorologo inglese del XX secolo Lewis Fry Richardson che voleva un Pianeta meteorologicamente standardizzato e prevedibile. Seguendo centinaia di pagine di equazioni e di altri dati nel suo libro Weather Prediction by Numerical Process (1922) [7], per Richardson uno dei principali limiti delle previsioni meteorologiche era la mancanza di capacità di calcolo. Ma se attraverso la sua fantasia poteva immaginare di mettere a fuoco un intero pianeta attraverso l’attività di migliaia di esperti meteorologisti, oggi, nell’era del monitoraggio millimetrico del Pianeta, degli algoritmi e dei big data, la sua fabbrica di previsioni ha visto osservazioni locali, un tempo sparse, fondersi in un sistema planetario coerente: calcolabile, prevedibile e supervisionato.
Richardson morì nel 1953, l’anno in cui IBM lanciò il primo computer elettronico prodotto in serie. Sebbene la sua fabbrica non si sia mai materializzata esattamente come l’aveva immaginata, il suo sogno di un pianeta calcolabile ora sembra profetico. Negli anni ‘60, il calcolo numerico delle condizioni meteorologiche globali era diventato un modo standardizzato per registrare i cambiamenti nell’atmosfera. Nuvole e numeri sembravano affollassero il cielo. Dagli anni ‘60, la portata di ciò che Richardson chiamava previsione meteorologica si è notevolmente ampliata. I modelli climatici ora si estendono nel profondo passato e futuro, comprendendo l’intero sistema terrestre piuttosto che solo l’atmosfera.[8] Ciò che sorprende in questo non è che le capacità tecniche della contemporaneità, ad impronta occidentale, abbiano superato i sogni di fantascienza di Richardson, ma le ripercussioni inaspettate della fabbrica contemporanea delle previsioni del Pianeta. La Terra calcolabile, prevedibile e sorvegliata avrebbe rivelato non solo eoni di clima globale, ma un nuovo tipo di pianeta e, con esso, mette alla ribalta una nuova modalità di governo.
Il Pianeta come nuovo tipo di oggetto politico
Nel processo di esplorazione e monitoraggio dei territori inediti della Terra e altrove nello spazio, il Pianeta, sostiene Isberg [9], è apparso come un nuovo tipo di oggetto politico. Ovviamente, Isberg non si riferisce al Pianeta in orbita attorno al Sole della rivoluzione copernicana nè al corpo che i primi astronauti guardarono dallo spazio negli anni ‘60. Nemmeno della Nave Terra di Buckminster Fuller [10] né il tenue puntino azzurro di Carl Sagan.[11] Quelli sarebbero i pianeti del millennio passato. Isberg si riferisce al pianeta all’interno della crisi planetaria. Questo nuovo pianeta Terra, nella visione di Isberg, emergerebbe dalla consapevolezza che gli impatti antropogenici non sarebbero isolati in aree particolari ma parti integrate di una complessa rete di processi intersecanti che si svolgono su scale temporali molto disparate e attraverso geografie diverse.[12] In breve, si tratta del Pianeta Terra dell’Antropocene al quale sarebbe inerente un’emergenza climatica. Questa cosiddetta svolta planetaria imporrebbe un nuovo modo di pensare al rapporto che le popolazioni mondiali, vincolate in modi asimmetrici in una economia globale, oggi avrebbero con l’ambiente. Di conseguenza, tale svolta segnalerebbe anche l’emergere di un oggetto governabile distinto, che suggerisce che il principale oggetto politico del XXI secolo non sia più lo stato-nazione ma il pianeta.
Per coloro che seguono da vicino la scienza e le politica ambientale contemporanee, questa non sarebbe una novità. La necessità di rimanere entro i confini del pianeta divenne un punto critico negli anni ‘70 dopo che il Club di Roma pubblicò il suo rapporto I limiti dello sviluppo (1972). Il rapporto suggeriva che una crescita economica illimitata su un pianeta con risorse limitate si sarebbe rivelata insostenibile a lungo termine. Da allora, piuttosto che limiti, il quadro cruciale per la governance ambientale globale è diventato confini planetari, un termine coniato nel 2009 da Johan Rockström [13] e da un team di ricercatori che respingerebbero l’idea che la crescita economica e lo sviluppo debbano avvenire a spese dell’ambiente poichè gli sviluppi recenti segnalerebbero la possibilità e le opportunità da un nuovo paradigma di abbondanza nell’ambito dei confini planetari. Questo cambiamento, come segnala Isberg [14], sarebbe emblematico di come le relazioni globali, sociali, economiche e tecnologiche si siano fuse con le proprietà fisiche del pianeta stesso.
Offuscamento del futuro politico e, di conseguenza, della scienza
Modellare l’esito della relazione intricata e, stando al pensiero mainstream, in rapido declino, tra gli umani e la Terra è diventato un compito chiave per gli studiosi in una vasta gamma di campi, il che avrebbe portato a un offuscamento del futuro scientifico e politico. Più questa relazione si avvicina, più diventerebbe difficile districare i due l’uno dall’altro. Per le generazioni nate nella metà degli anni ‘90, i modelli delle condizioni planetarie sarebbero quasi diventati immagini del futuro stesso. Il pianeta è improvvisamente ovunque. La pianificazione, la progettazione, la ricerca, la strategia, persino le basi del pensiero stesso, apparirebbero ora adattate alla scala planetaria. Poiché questa scala diventa onnipresente, a volte, può risultare difficile vedere che questa forma del pianeta abbia una storia propria. E sarebbe questa scala onnipresente ciò che ci ripropone sempre la stessa domanda: Se il Pianeta è riemerso di recente come un nuovo tipo di categoria ambientale, allora da dove viene?
Il pianeta da poco riemerso, sostiene Isberg, può essere ricondotto a fantasie come quella di Richardson. La governance planetaria contemporanea si baserebbe su una traiettoria specifica del monitoraggio planetario. Infatti, al riguardo si potrebbe fare riferimento al pensiero di Andrew Russel e Lee Vincel, nello specifico alla loro analisi su Elon Musk e l’ascesa della strana scienza a cascata della Silicon Valley.[15] In ogni caso, anche se gli sforzi per mappare e misurare lo spazio globale avrebbero una storia molto più lunga, non da ultimo come veicolo principale del colonialismo e dell’imperialismo occidentali, come puntualizza Ramin Skibba [16], gli sforzi per monitorare e governare le dinamiche planetarie si sono basati anche su una storia particolare di conoscenza, visione e misurazione del pianeta, come sostiene Marko Kovic [17]. Pensare al pianeta come a un sistema interconnesso richiedeva approcci quantificati e centralizzati, nonchè un’ampia gamma di strumenti e tecnologie scientifiche. Attraverso questa rielaborazione concettuale politica e scientifica, un tipo specifico di pianeta sarebbe stato in grado di emergere, non da solo, ma attraverso le storie interconnesse di geopolitica, corsa agli armamenti, tecnologia e visioni strategiche del monitoraggio planetario.[18] Tecnicamente, l’inizio di una graduale transizione dal monitoraggio planetario militare strategico alla governance planetaria sarebbe iniziato proprio durante il dopoguerra, quando i collegamenti tra planetario e globalizzazione si sono rafforzati, sostiene Isberg.[19] Ma anche prima di allora, prima delle ultime generazioni di mezzi tecnologici e scientifici per monitorare la dinamica planetaria, si cominciava a delineare il quadro concettuale per quantificare un pianeta dinamico.
La raccolta di dati su scala planetaria non è avvenuta nel vuoto: è stata mobilitata da strategie geopolitiche con un quadro concettuale per quantificare un pianeta dinamico
La fantasia di cento anni fa di Richardson non considerava la totalità dei processi della Terra ma solo condizioni meteorologiche che si svolgono in tempo reale. Il suo approccio, però, sarebbe sorprendentemente contemporaneo. Proprio come i suoi esperti meteorologi che riportavano i loro dati all’uomo responsabile mentre lavoravano lungo le gallerie della fabbrica delle previsioni metereologiche, oggi un’ampia gamma di campi scientifici forniscono le informazioni di base per lo sviluppo dei modelli [20] e simulatori relativi al clima. Sebbene i dati ora si estendano su millenni, nell’opinione di Isberg [21], le logiche di strutturazione della fabbrica di Richardson sarebbero rimaste intatte. Nel corso del tempo, nuovi problemi numerici sarebbero stati aggiunti al quadro della fabbrica delle previsioni e, man mano che la prospettiva dell’impatto umano sulle dinamiche planetarie sarebbe diventata più probabile, il lavoro della fabbrica si sarebbe espanso nei domini della politica e della storia. [22] I dati che avrebbero espanso il dominio della questione climatica ai domini della politica e della storia, non sarebbero stati solo una serie di numeri in attesa di essere strappati dalla terra, dal mare e dalla stratosfera. Tali dati sarebbero stati, come sostiene Isberg, arruolati e costruiti. Per monitorare l’intero pianeta attraverso lo spazio e il tempo, i ricercatori della metà del XX secolo avrebbero capito che avevano bisogno di tradurre i fenomeni naturali, inclusi gli anelli degli alberi [23] e le carote di ghiaccio [24], in dati che potessero essere sincronizzati e confrontati attraverso modelli. Le scienze della Terra, come l’oceanografia, la glaciologia e la meteorologia, avrebbero svolto un ruolo chiave in questo lavoro di traduzione, ma la raccolta di dati su scala planetaria non sarebbe avvenuta nel vuoto. Essa sarebbe stata mobilitata dall’ambizione geopolitica di estendere potere militare alle più remote parti del pianeta. Questa tonalità imperialista opaca della raccolta dati a livello planetario permette di tracciare le origini di un pianeta monitorato, percorso che ci porta dalle fantasie di fabbriche di previsioni a vaste reti tecnologiche materiali, a paure di Guerra Fredda e a storie climatiche celate nelle profondità delle calotte polari e negli archivi dal carotaggio.
L’Anno geofisico internazionale (IGY) [25], programma iniziato nel 1957, sarebbe un ottimo esempio di come si sia verificato questo sviluppo. L’IGY è stato un notevole sforzo scientifico e diplomatico. Coinvolgendo circa 60.000 studiosi provenienti da 67 paesi, avrebbe funzionato come una sorta di olimpiadi scientifiche. L’obiettivo condivisibile sarebbe stato quello di costruire una comprensione o teoria coerente di come funzionava il pianeta a livello geofisico e di come interagivano i suoi numerosi componenti. Geografie remote, come le regioni polari, il fondo dell’oceano e l’atmosfera superiore sono state aggiunte ad una fiorente comprensione del pianeta come interconnesso e dinamico. [26] In breve, si stava costruendo un’ontologia volta alla giustificazione di un controllo totalitario del pianeta.
La tecnologia è stata al centro dell’IGY (Anno geofisico internazionale). L’evento sarebbe stato accompagnato da un’ondata di nuovi dispositivi per il rilevamento, il campionamento e il recupero di parti della Terra precedentemente inaccessibili. Gran parte di questa tecnologia sarebbe emersa dalla geopolitica della Guerra Fredda e dal finanziamento militare delle scienze della Terra. [27] L’IGY sarebbe iniziato nel luglio 1957 e, man mano che procedeva, gli studiosi ebbero accesso a una crescente parata di strumenti scientifici. Satelliti, razzi, palloni meteorologici e apparecchiature radar potevano essere diretti verso l’atmosfera e oltre. Tecnologie sonar acustiche, misuratori di corrente, magnetometri e dispositivi di carotaggio profondo aprirono nuovi campi di studio negli oceani. Le carotatrici di ghiaccio, i rilevatori di crepacci e i sismografi fecero lo stesso per le regioni polari. Anche se questi strumenti avrebbero funzionato in modi diversi e applicati a diverse aree geografiche, avrebbero prodotto, come puntualizza Isberg [28], lo stesso risultato: i numeri.
L’Anno geofisico internazionale (IGY), con il suo obiettivo generale di studiare il pianeta come un singolo sistema fisico, necessitava di una sorta di traduzione elementare. Ghiaccio, roccia, suolo, aria e acqua sono stati misurati e trasformati in numeri, che a loro volta potrebbero formare modi quantificati per conoscere le dinamiche della Terra su scala planetaria. In base agli studi al riguardo condotti da Elena Aronova, negli anni successivi all’IGY, i dati raccolti sarebbero stati archiviati su microfilm nei paesi del sistema World Data Center [29], un’istituzione creata in concomitanza con l’evento per facilitare la diffusione globale dei risultati della ricerca. [30] Anche se questo era più facile a dirsi che a farsi, in quanto questo avveniva, dopotutto, durante la Guerra Fredda, e i dati geofisici erano sempre stati e continuano ad essere di interesse militare, i data center costituivano una versione predigitale di quelli che in seguito sarebbero diventati database climatici digitali. Negli impianti di conservazione in depositi sparsi per il mondo, una versione quantificata del pianeta cominciò a prendere forma, arrotolata su chilometri e chilometri di microfilm.
L’ottimismo geofisico è stato messo in contrasto con la consapevolezza della fragilità ecologica e, potenzialmente, del disastro
Contrariamente ai modelli climatici contemporanei, l’IGY (Anno geofisico internazionale) non aveva dato il primato all’impatto umano. In effetti, le questioni politiche, di qualsiasi tipo, sono state mantenute il più possibile racchiuse. L’IGY era una duplice impresa, scientifica e militare allo stesso tempo. La dimensione militare e politica del programma era rimasta racchiusa nei grandi proclami diplomatici. Nella narrativa che ha raccontato il programma, la sua pubblica natura non politica è stata costantemente ribadita dagli scienziati occidentali mentre celebravano il fascino dell’acquisizione di nuove conoscenze su scala planetaria che trascendessero la politica della Guerra Fredda. In questa prospettiva, i potenziali oggetti di studio controversi, come il fallout radioattivo (ricaduta radioattiva) [31] e il cambiamento climatico antropogenico, dovevano essere inquadrati come questioni tecniche anzichè politiche. [32] Piuttosto che essere visti come problemi da affrontare per le società, interpretazione che avrebbe potuto aprire la porta a questioni diplomatiche e politiche, i cambiamenti nelle dinamiche planetarie dovuti all’impatto umano sarebbero stati inquadrati come esperimenti su larga scala. [33] Prese piede un’ideologia ottimistica sul ruolo dell’umanità, nei termini di un’annotazione astratta, negli affari planetari. A quel tempo, i modi in cui la combustione dei carburanti fossili influenzava le dinamiche climatiche divennero, nella narrativa dell’establishment, il più grande esperimento geofisico della storia. Nelle parole di Roger Revelle, uno dei principali oceanografi statunitensi e organizzatore dell’IGY, “gli essere umani stanno a portare avanti su larga scala un esperimento geofisico che non avrebbe potuto svolgersi nel passato nè potrà essere replicato nel futuro”. [34] Questa citazione, presa da uno degli organi di diffusione più utilizzati dalle popolazioni, è emblematica per l’utilizzo opaco della questione. L’establishment si auto-esonera da qualsiasi responsabilità e sarebbero, invece, gli umani, in quanto tali, a condurre l’esperimento, come se gli umani, semplice tassonomia biologica, avessero un programma sancito di come vivere e sfruttare le risorse del pianeta.
Man mano che la raccolta di informazioni circa le dinamiche geofisiche del pianeta evidenziava un impatto che comprometteva la società del consumo, la questione, anzichè in termini di modalità di creazione di bisogni indotti, fu messa in termini di una voluttuosità umana irresponsabile. Nasce così negli anni ’60 un ambientalismo che, in qualche modo, entra in contrasto con le attività dell’IGY, richiedendo di centrare l’attenzione, anzichè nella ricerca, nella consapevolezza della fragilità ecologica e, potenzialmente, del disastro. Molte delle preoccupazioni ambientali emerse a quel tempo derivavano da tradizioni scientifiche come l’ecologia, la biologia e la fisiologia vegetale. In ogni caso, gli studiosi considerano[35] che una concettualizzazione geofisica del pianeta sia rimasta al di fuori della portata della coscienza ambientale. Dati gli stretti legami tra finanziamento militare e ricerca geofisica, le questioni ambientali sarebbero state lasciate ad altre discipline e l’utilità della geofisica sarebbe stata concettualizzata principalmente in termini geopolitici e come strumento strategico militare. In questi squilibri tra le vaste scale temporali geologiche della geofisica e l’urgenza politica dell’ambientalismo sarebbe prevalsa l’attenzione su una pericolosa relazione tra umanità e pianeta. Nel 1966, in una base dell’esercito statunitense chiamata Camp Century nella Groenlandia nordoccidentale, un team di scienziati fece un passo che alcuni potrebbero considerare nella direzione ambientalista. Nascosta nelle profondità della calotta glaciale della Groenlandia, la base era un progetto statunitense per eccellenza della Guerra Fredda. [36] Alimentata da un reattore nucleare, situata in un sito geopoliticamente strategico nell’Artico, e ben collegata alla forza tecnologica e infrastrutturale dell’esercito americano. Era anche in procinto di essere abbandonata.
Cambiamento concettuale nella relazione tra ghiaccio e storia
Mentre l’interesse militare si spostava in altre parti del mondo, il geofisico danese Willi Dansgaard vide la possibilità di utilizzare la base della Groenlandia per perforare molto più in profondità nel ghiaccio di quanto fosse stato possibile in precedenza. Il suo obiettivo era recuperare carote di ghiaccio della calotta glaciale in cui si erano accumulati strati di ghiaccio nel corso di secoli o addirittura millenni. Utilizzando la tecnica della datazione isotopica sviluppata in quel periodo, Dansgaard ha potuto studiare la stratigrafia nelle carote di ghiaccio per interpretare la composizione dell’atmosfera al momento del congelamento del ghiaccio. [37] Stava prendendo forma un nuovo tipo di concettualizzazione del ghiaccio. Approcciare la calotta glaciale come a uno spazio verticale, poteva funzionare come la discesa in un archivio di climi passati, un deposito congelato di storie planetarie. Le generazioni precedenti di glaciologi avevano spesso parlato del ghiaccio come di un calendario che poteva essere studiato in tempo reale perchè i ghiacciai rispondono ai cambiamenti climatici che li circondano. Successivamente, questi calendari sarebbero stati intesi come archivi, un cambiamento nella metafora temporale indicativo di un più ampio cambiamento concettuale nella relazione tra ghiaccio e storia, dove i lenti corpi dei ghiacciai sono stati sempre più visti come proxy [38] per un rapido cambiamento planetario.
A Camp Century, Dansgaard aveva finalmente i mezzi tecnologici per provare i suoi metodi di datazione su scala più ampia, avendo accesso a una base militare tecnologicamente avanzata all’interno della calotta glaciale della Groenlandia. Nel 1966, Dansgaard e il suo team hanno perforato tutta la calotta glaciale fino al substrato roccioso, 1.387 metri sotto di loro. La carota di ghiaccio che sono stati in grado di recuperare era molto più lunga di qualsiasi carota precedente e avrebbe prodotto una storia climatica che risale a 100.000 anni fa. Per riferimento, i tentativi di perforare le carote di ghiaccio durante l’IGY nel 1957-58 avevano prodotto registri di soli 900 anni. La carota di Dansgaard avrebbe rivelato il passato di un pianeta che aveva subito drammatici cambiamenti durante la sua storia, con grandi variabilità e cambiamenti climatici rapidi. Gli scienziati hanno lasciato Camp Century poco dopo la perforazione perchè veniva gradualmente schiacciato dai lenti movimenti della calotta glaciale. La struttura avrebbe iniziato a riemergere solo di recente poichè i cambiamenti climatici provocherebbero lo scioglimento del ghiaccio soprastante. [39] In un certo senso, il vero lavoro sarebbe iniziato una volta che se ne fossero andati. Tagliata in piccoli pezzi, la carota di ghiaccio sarebbe stata fatta circolare tra le strutture di ricerca negli Stati Uniti e in Danimarca e l’enorme quantità di dati in essa contenuti avrebbe suggerito nuove domande di ricerca.
Dansgaard aveva molte idee. “Lo sviluppo della tecnica di carotaggio del ghiaccio ha portato ad un’ampia varietà di studi che vanno ben oltre la glaciologia stessa”, scrisse nel 1973, ed elencò un’ampia gamma di discipline – dalla fisica solare alla meteorologia e alla chimica dell’atmosfera – che potrebbero trarre vantaggio da studi sulle carote di ghiaccio. [40] Avrebbe anche iniziato a ipotizzare se le carote di ghiaccio potessero essere utilizzate per prevedere le condizioni climatiche future e formare una linea di base rispetto alla quale misurare l’impatto umano. Avrebbe fatto appello in particolare alla crescente comunità di sviluppatori di modelli del clima e avrebbe affermato che si dovrebbero usare le sue carote di ghiaccio per diagnosticare i processi che causano i cambiamenti climatici e per verificare la validità dei loro modelli. [41] Si può quasi immaginare Dansgaard presentarsi alla fabbrica di previsioni di Richardson, con una carota di ghiaccio sotto il braccio, prendere posto lungo l’enorme teatro e rivelare una serie di numeri completamente nuovi all’uomo sul pulpito centrale.
Questo aumento della portata temporale della Fabbrica delle previsioni delle dinamiche geofisiche della Terra avrebbe aggiunto un’ulteriore dimensione alla comprensione del Pianeta. Con le interpretazioni di Dansgaard della sua carota di ghiaccio, il pianeta si sarebbe allungato nel tempo e ora potrebbe essere considerato un luogo con una storia climatica ricca e drammatica. Ha, certamente, alzato anche la posta in gioco per il futuro perché. se il pianeta avesse subito rapidi cambiamenti in passato, potrebbe farlo di nuovo.
All’inizio degli anni ‘70, Dansgaard sarebbe stato tutt’altro che solo nella sua ambizione di riunire lunghe scale temporali planetarie con il crescente campo scientifico dei modelli del clima. Le carote di ghiaccio erano state allineate insieme ad altri archivi climatici – sedimenti di acque profonde, antichi campioni di polline, coralli, anelli di alberi – che all’epoca potevano essere tradotti in un sistema climatico coerente. [42] Ma gli archivi da soli non sarebbero bastati. Mentre Dansgaard e i suoi colleghi starebbero a perforare le calotte glaciali della Groenlandia, stando alla narrativa trionfalista degli eventi [43], una nuova generazione di meteorologi e sviluppatori di modelli del clima avrebbero sviluppato metodi sempre più avanzati per calcolare e prevedere le condizioni climatiche future. Quella che sarebbe iniziata come un’ambizione di prevedere cambiamenti meteorologici a breve termine, un’aspirazione condivisa da Richardson, cresceva temporalmente e spazialmente. I primi modelli generali di circolazione (GCM) [44], sviluppati per quantificare i processi atmosferici su scale temporali mensili o stagionali, furono prodotti negli anni ‘60. Ma questi modelli risulterebbero, in ogni modo, ancora rudimentali, prodotti da piccoli team e potevano dare solo risposte frammentarie e parziali alle domande che i modellisti ponevano loro. Inoltre, emergevano nuove domande. Come scrisse lo studioso del clima William Welch Kellogg nel 1971, “l’inquietante consapevolezza che l’umanità poteva alterare il clima della Terra era diventata una delle questioni più importanti del nostro tempo”. [45] Negli anni successivi alla realizzazione di Kellogg, gruppi organizzati di ricercatori iniziarono a mettere insieme dei, per così dire, diversi componenti del pianeta precedentemente da loro quantificati: i dati globali coordinati raccolti dall’IGY, le profonde scale temporali rese visibili nelle carote di ghiaccio e in altre documentazioni climatiche. Persino la crescente preoccupazione per l’impatto umano sulle dinamiche planetarie fu tradotta e disegnata in un modello coerente. [46] Mentre i modelli generali di circolazione (GCM) erano in grado di calcolare l’atmosfera immensamente complessa, una nuova generazione di modelli, o meglio, di nuovi gruppi di interessi, i veri artefici della questione, mirava a concettualizzare l’intera Terra come un sistema costituito da componenti interagenti. Se ciascuno di questi componenti – che si tratti di oceani, atmosfera o regioni polari – potesse essere quantificato e modellato in relazione l’uno con l’altro, si argomentava, sarebbe stato possibile produrre modelli del sistema Terra. [47]
Realizzare modelli su così vasta scala, che coinvolgessero così tante misurazioni o metodi di misura e componenti, richiedeva una grande dose di pragmatismo. Infatti, la potenza di calcolo non è infinita. Ogni processo che entrava nel modello doveva essere ridotto a una scala gestibile, traducendo le complesse variabilità locali in algoritmi standardizzati. [48] Stando sempre a Isberg, man mano che i modelli del sistema terrestre (ESM) [Ecology without Nature. Rethinking Environmental Aesthetics [49] avrebbero gradualmente sostituito i GCM, l’ambizione di modellare il pianeta era cresciuta di portata ma sarebbe rimasta sorprendentemente modesta nella raccolta dei dati. Francis Bretherton, matematico e direttore del National Center for Atmospheric Research dal 1974 al 1980, delineò la filosofia del suo programma di ricerca in un’intervista a Science nel 1986 segnalando che molte delle osservazioni di cui avevano avuto bisogno erano già state fatte per altri motivi, come per la previsione del tempo. La differenza rispetto agli approcci precedenti, segnalava, fosse di natura intellettuale piuttosto che tecnologica. Stando a lui si trattava più di un atteggiamento mentale. La pretesa era voler assicurarci di fare il possibile per coprire tutto il pianeta. La prospettiva stava cambiando. Sembrava che i modelli potessero comprendere molti più fenomeni di quanto sembrava possibile in precedenza. E questa prospettiva innescava una brama di monitoraggio planetario che, inevitabilmente, conteneva una dimensione politico-militare superiore.
La brama per il monitoraggio planetario diventa brama per un totalitarismo planetario
L’agenda unificante delineata da Bretherton e dai suoi colleghi cercava di incorporare diversi processi – geologici, geochimici, biologici, politici – in un quadro coerente. Anche il ruolo dell’impatto umano è stato visto come un fattore che influenzava il sistema Terra, ma è stato naturalizzato [50] come solo una delle tante forze che interagiscono sul pianeta. Stando a Isberg [51], nelle visualizzazioni e nei diagrammi del sistema Terra, un’umile scatola con su scritto attività umana sarebbe apparsa accanto a scatole che rappresentano altri processi planetari. L’umanità, come nozione astratta o come semplice aggregato di popolazioni che consumano irresponsabilmente prodotti senza un green label, è apparsa come un monolite, una forza unificata come qualsiasi altra categoria geofisica.
L’inserimento delle attività umane nella modellazione del sistema Terra avrebbe segnato una formalizzazione di ciò che era stato a lungo in preparazione: il passato e il futuro della vita umana erano una delle tante scale temporali planetarie che la nuova scienza del sistema Terra stava seguendo. [52] Da una tale premessa deriva che la stabilità. del sistema non dipendeva solo dalle forze naturali, ma anche dalle decisioni politiche e dalle normative ambientali per regolare il comportamento delle popolazioni. Da questa conclusione, il passaggio dal monitoraggio planetario all’idea della necessità di una governance del pianeta era immediato, o meglio il passaggio ad un controllo totalitario del pianeta appare come soluzione finale ineluttabile, stando ai think tank dell’ortodossia ambientalista.
Nella narrativa dell’establishment, la recente svolta verso il planetarismo dovrebbe essere intesa non come una pulsione totalitarista ma come il risultato di una storia scientifica più lunga di concettualizzazione delle dinamiche planetarie e delle plausibili idee di monitoraggio dell’Antropocene. Il pianeta, in un certo senso, era sempre stato qui ma, ad un tratto, viene rappresentato come qualcosa apparso solo di recente. Dal secolo scorso, da quando Richardson condivise la sua fantasia, un’immensa mobilitazione della scienza e della tecnologia, a seguito dell’interesse politico e finanziario per le dinamiche planetarie, sta modificando radicalmente il rapporto tra la Terra e i suoi abitanti umani. In questa prospettiva s’insiste che la pressione umana sul sistema Terra avrebbe raggiunto proporzioni senza precedenti e potenzialmente disastrose. La conoscenza del pianeta, come sistema interconnesso, si sarebbe co-evoluta con l’accelerazione degli impatti umani sul sistema, impatti relativi agli umani in astratto senza alcun accenno riguardo al modo in cui vengono gestite le popolazioni dal sistema politico finanziario.
I cosiddetti progetti scientifici coordinati a livello globale, dall’Anno geofisico internazionale alle carote di ghiaccio di Dansgaard, sarebbero emblematici per come nuove categorie e set di dati siano entrati in un quadro politico militare preesistente. Con l’istituzione della scienza del sistema Terra negli anni ‘80, la fabbrica delle previsioni meteo si sarebbe espansa in una moltitudine di processi, oltre che nel dominio della politica. Mentre Richardson viveva in un’epoca in cui l’impatto umano non era un fattore con cui fare i conti, la sua fantasia sarebbe rimasta intatta anche se l’umanità oggi appare in primo piano proprio nei processi che la fabbrica mirava a prevedere: il clima. Con il pianeta che emerge come il principale oggetto politico di questo secolo, comprenderne la storia può aiutarci a riconoscere come il planetarismo, nonostante la sua natura apparentemente inequivocabile, porti una politica propria. Questa nuova Terra, calcolabile, prevedibile, supervisionata e che richiederebbe una governance globale totalitaria non è sorta nel vuoto. In ogni modo, rimane negli archivi dell’Anno Geofisico Internazionale la documentazione che suggerirebbe che il pianeta avesse subito rapidi cambiamenti climatici in passato.
______________Note _________________
1. Erik Isberg. A new Earth rises. AEON, 16 May 2022 / Isberg . uno studioso al KTH Environmental Humanities Laboratory e alla Division of History of Science, Technology and Environment al KTH Royal Institute of Technology in Stockholm, Sweden.
2. Gruppo di esperti, a carattere lobbistico, impegnato nell’analisi e nella soluzione di problemi complessi, specie in campo economico, politico o militare.
3. Geofisica. Vocabolario Treccani edizione online su treccani.it, Istituto dell’Enciclopedia Italiana
4. Ibidem
5. Ibidem
6. Erik Isberg. A new Earth rises. AEON, 16 May 2022
7. Lewis Fry Richardson. Weather Prediction by Numerical Process. 2nd edition, Cambridge Mathematical Library, 2007
8. Erik Isberg, op. cit. 2022
9. Ibidem
10. R. Buckminster Fuller, eclettico genio, affida al suo Manuale operativo per Nave Spaziale Terra decenni di riflessioni sul futuro dell’umanià. Messaggi lanciati nello spazio, progetti avanguardistici, profezie destinate a realizzarsi negli anni a venire che rispondono a domande sempre pi. urgenti: come sopravvivremo alle crisi che stanno sopraggiungendo? come risolveremo i problemi pi. critici, l’inquinamento, la povertà? Dagli albori della civiltà gli umani hanno dovuto specializzarsi in occupazioni e conoscenze sempre pi. vaste – dalla scarna illuminazione di una grotta di pochi metri al governo di un regno o di un impero, dalle precarie tecniche di caccia e allevamento a quelle di produzione industriale. Il fascino della conquista ha donato agli abitanti delle terre emerse re, inventori, artisti, mostri, scienziati destinati a possedere un’immaginazione straordinaria e a inseguire i sogni e gli incubi dell’esistenza, mentre miliardi di anonimi individui si sono perfezionati in un ruolo specifico per mandare avanti gli ingranaggi del pianeta. Quando hanno scoperto il mare, gli umani si sono resi conto di quanto modesti fossero i territori fino ad allora esplorati, e una domanda di infinitudine li ha spinti ad abbandonare il proprio status di pedoni per conquistare, come Odisseo, nuove forme di paesaggio e di sapienza. Molto pi. tardi hanno capito che era possibile abitare anche il cielo, i pianeti, le galassie, l’universo. Davanti a quell’immensità, la vita del pianeta Terra . apparsa ancora più microscopica, la sopravvivenza pi. che mai minacciata dall’esiguità delle risorse. A guardarla dallo spazio, infatti, la Terra è una sfera sospesa in mezzo a miliardi di altre.è una piccola nave che solca lo spazio, l’umanità il suo timoniere. Che cosa dobbiamo fare noi, ultimi esseri umani, perché questa navicella, oggi in avaria, resista all’inevitabile collasso? Buckminster Fuller mette in discussione il concetto millenario di specializzazione, chiede una rivoluzione progettuale e offre consigli sul modo in cui guidare questa nave spaziale verso un futuro sostenibile. Per farlo, afferma, . indispensabile distogliere il nostro sguardo dalla limitatezza del dettaglio e ammirare il mondo nell’immensità del suo insieme. Richard Buckminster Fuller. Manuale operativo per Nave Spaziale Terra. Il Saggiatore, 2018 / Richard Buckminster Fuller. . E. P. Dutton, 1969
11. La Pale Blue Dot o il tenue puntino azzurro è una fotografia del pianeta Terra scattata nel 1990 dalla sonda Voyager 1, quando si trovava a sei miliardi di chilometri di distanza, ben oltre l’orbita di Nettuno. L’idea di girare la fotocamera della sonda e scattare una foto della Terra dai confini del sistema solare è stata dell’astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan. In seguito il nome della fotografia è stato usato da Sagan anche per il suo libro del 1994 Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space. Nel suo libro Sagan espone i suoi pensieri sul significato profondo della fotografia: “Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole. La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica. Pensate ai fiumi di sangue versati da tutti quei generali e imperatori affinché, nella gloria e nel trionfo, potessero diventare per un momento padroni di una frazione di un puntino. Pensate alle crudeltà senza fine inflitte dagli abitanti di un angolo di questo pixel agli abitanti scarsamente distinguibili di qualche altro angolo, quanto frequenti le incomprensioni, quanto smaniosi di uccidersi a vicenda, quanto fervente il loro odio. Le nostre ostentazioni, la nostra immaginaria autostima, l’illusione che noi abbiamo una qualche posizione privilegiata nell’Universo, sono messe in discussione da questo punto di luce pallida. Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è alcuna indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per salvarci da noi stessi. La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora. Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto.” Wikipedia
12. Erik Isberg, op. cit. 2022
13. Rockstr.m, J., Steffen, W., Noone, K. et al. A safe operating space for humanity. Nature 461, 472-475, 23 Sept. 2009
14. Erik Isberg, op. cit. 2022
15. Andrew Russell & Lee Vinsel. Whitey on Mars. Elon Musk and the rise of Silicon Valley’s strange trickle-down science. AEON, 1 February 2017
16. Ramin Skibba. Decolonising the cosmos. Instead of treating Mars and the Moon as sites of conquest and settlement, we need a radical new ethics of space exploration. AEON 12 Nov 2021
17. Marko Kovic. Rules in space. If we don’t invent legal framework for space colonisation the consequences could be catastrophic: the time to act is now. AEON 4 Dec 2018
18. Erik Isberg, op. cit. 2022
19. Ibidem
20. In climatologia per modelli del clima o modelli climatici si intendono i modelli fisico-matematici che descrivono il funzionamento del clima terrestre a livello globale o locale attraverso metodi quantitativi basati su equazioni differenziali per simulare le interazioni tra le componenti fondamentali del sistema climatico, tra cui l’atmosfera terrestre, gli oceani, la superficie terrestre, la biosfera e la criosfera. La modellistica climatologica . una branca della climatologia che esiste sin dagli inizi degli anni 60 del XX secolo, con i modelli creati, a volte utilizzati congiuntamente ai modelli oceanici, che vengono utilizzati per svariati scopi che vanno dallo studio delle dinamiche del clima passato alle proiezioni sul clima futuro nell’ambito dei mutamenti climatici della Terra. Il clima è lo stato medio del tempo atmosferico a varie scale spaziali (locale, regionale, nazionale, continentale, emisferico o globale) rilevato nell’arco di almeno 30 anni secondo la definizione ufficiale fornita dalla Organizzazione meteorologica mondiale. È in massima parte una funzione dell’inclinazione dei raggi solari sulla superficie della Terra al variare della latitudine; a ciascuna fascia climatica-latitudinale della Terra corrispondono caratteristiche fisico-ambientali diverse in termini di flora e fauna detti biomi (es. foreste pluviali, deserti, foreste temperate, steppe, taiga, tundra e banchisa polare), influenzando fortemente le attività economiche, le abitudini e la cultura delle popolazioni che abitano il territorio. La principale caratteristica del clima rispetto al comune “tempo meteorologico”, oltre all’intervallo temporale di osservazione e studio, è l’avere un andamento che tende a mantenersi stabile nel corso degli anni pur con una variabilità climatica interannuale dovuta alle stagioni e di medio-lungo periodo che vi si sovrappone. L’attenzione scientifica negli ultimi decenni si è spostata sempre più sulla comprensione o ricerca approfondita dei meccanismi che regolano il clima terrestre, specie in rapporto ai temuti cambiamenti climatici osservati negli ultimi decenni.
21. Erik Isberg, op. cit. 2022
22. Ibidem
23. Dalia Nassar & Margaret M Barbour. Rooted. AEON, 16 Oct 2019 / Nassar & Barbour della School of Life and Environmental Sciences at the University of Sydney,
24. James Westcott. Written in stone. AEON, 30 April 2015 / Una carota di ghiaccio . una sezione semicircolare di ghiaccio ricavata tramite carotaggio dei ghiacciai o delle calotte polari. La carota può fornire utili indicazioni sul clima del passato, dato che le nevi riportano numerose indicazioni su diversi parametri atmosferici, quali temperatura, composizione dell’aria, radiazione solare ed eventi straordinari come eruzioni vulcaniche. L’affidabilità e la quantità di dati presenti in una carota di ghiaccio è molto maggiore in confronto ad altri metodi paleoclimatici, come la dendrocronologia (ceppi degli alberi) o l’uso delle varve. La lunghezza delle carote determina il numero di anni che si possono studiare. Il carotaggio in Antartide, ad esempio presso la Base Vostok o grazie al progetto EPICA (European Project for Ice Coring in Antarctica) sul Plateau Antartico, ha permesso agli scienziati di ricavare informazioni fino a 800.000 anni fa.
25. L’Anno geofisico internazionale IGY . stato un programma di studi scientifici svoltosi dal 1º luglio 1957 al 31 dicembre 1958, cui collaborarono 66 Paesi, Italia compresa, e numerose associazioni scientifiche internazionali, con 30.000 scienziati e ca. 2000 stazioni e osservatori. Il periodo scelto corrispondeva a uno di massima attività solare. Gli argomenti di studio interessavano 14 sezioni: attività solare, aurore polari, comunicazioni rapide, geomagnetismo, glaciologia, gravimetria, ionosfera, meteorologia, misure di latitudine e di longitudine, oceanografia, radiazione cosmica, radiazione nucleare, razzi e satelliti artificiali, sismologia. Le stazioni geofisiche furono disposte in modo da tenere sotto controllo tutta la superficie terrestre, ma soprattutto tre fasce lungo i meridiani 75º W, 10º E e 140º W, la fascia equatoriale e le due calotte polari; nella sola Antartide furono installate 57 stazioni. L’Italia partecipò al programma con una rete di 90 stazioni e osservatori, interessati a 12 delle 14 sezioni. I dati ottenuti contribuirono notevolmente alla conoscenza dell’alta atmosfera, delle oscillazioni dei ghiacciai attuali, dell’oceanografia; anche la conoscenza dell’Antartide fece enormi progressi. Molte stazioni geofisiche istituite in occasione dell’AGI rimasero in funzione e continuano a operare attenendosi ai piani già. elaborati e alle modifiche suggerite dai risultati via via acquisiti. L’AGI consente di effettuare numerose osservazioni simultanee, relative a vari fenomeni geofisici, da un gran numero di aree del globo e in particolare quelle fino ad allora trascurate come le regioni polari, in particolare l’Antartide con le basi scientifiche dell’establishment come Amundsen-Scott e la base antartica di Vostok. La sua preparazione stimola fortemente la ricerca scientifica. In molte aree, per l’occasione, vengono create nomenclature internazionali, che sostituiscono i diversi sistemi precedentemente applicati. Pertanto, è possibile ottenere dati comparabili su scala internazionale. Molti esercizi coordinati internazionali sono organizzati durante l’evento e da allora sono diventati una pratica comune. Possiamo quindi dire che l’AGI consente un’internazionalizzazione della geofisica. D’altra parte, l’AGI segna l’inizio dell’era spaziale, con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica che hanno annunciato già Luglio 1955 che ciascuno di loro lanci un satellite artificiale in occasione di questo evento. Le battute d’arresto del programma Vanguard, scelto per rappresentare il contributo americano all’AGI, hanno portato l’URSS a essere, con sorpresa di tutti, la prima potenza a mettere in orbita un satellite, lo Sputnik 1. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il suo presidente Dwight D. Eisenhower affida infine al team di Wernher von Braun, escluso dalla corsa allo spazio qualche anno prima, la missione di lanciare il primo satellite artificiale. Così, il primo satellite americano, Explorer 1, viene finalmente lanciato il 1° febbraio 1958 da un Juno I launcher. Permette una delle scoperte più importanti dell’AGI: quella della cintura di Van Allen scoperta utilizzando uno strumento di bordo sviluppato dal professor James Van Allen. L’Anno geofisico internazionale è anche un’opportunità per nazioni come Francia, Regno Unito, Giappone, Canada e Australia per sviluppare programmi missilistici per l’esplorazione dell’alta atmosfera. È così che la Francia sta sviluppando la versione AGI del razzo Véronique, che potrebbe trasportare un carico utile di 60 kg a un’altitudine di 210 km.
26. Erik Isberg, op. cit. 2022
27. Ibidem
28. Ibidem
29. Fondamentalmente USA, Russia e qualche paese europeo. https://wdc.kugi.kyoto-u.ac.jp/wdc/whatis.html
30. Elena Aronova. Geophysical Datascapes of the Cold War: Politics and Practices of the World Data Centers in the 1950s and 1960s. Osiris, Volume 32, Issue 1, The University of Chicago Press, 2017
31. La ricaduta radioattiva di una esplosione nucleare è il materiale coinvolto nell’esplosione, reso radioattivo e lanciato in aria fino al limite della troposfera che ricade sotto forma di cenere e pulviscolo altamente letale.
32. Erik Isberg, op. cit. 2022
33. Ibidem
34. https://it.wikipedia.org/wiki/Roger_Revelle
35. Erik Isberg, op. cit. 2022
36. Ibidem
37. Ibidem
38. Proxy, in informatica e telecomunicazioni, indica un tipo di server che funge da intermediario per le richieste da parte dei client alla ricerca di risorse su altri server, disaccoppiando l’accesso al web dal browser. Un client si connette al server proxy, richiedendo qualche servizio (ad esempio un file, una pagina web o qualsiasi altra risorsa disponibile su un altro server), e quest’ultimo valuta ed esegue la richiesta in modo da semplificare e gestire la sua complessità. I proxy sono stati inventati per aggiungere struttura e incapsulamento ai sistemi distribuiti
39. Per un riferimento sul disastro ambientale si veda l’articolo sui rifiuti radioattivi lasciati a Camp Century su https://www.lifegate.it/groenlandiacamp-century-rifiuti-tossici
40. Erik Isberg, op. cit. 2022
41. Ibidem
42. Ibidem
43. Ibidem
44. In meteorologia e climatologia un modello generale della circolazione, spesso abbreviato in GCM dall’acronimo della terminologia inglese General Circulation Model, è un tipo di modello del clima utilizzato nelle previsioni climatiche per comprendere il clima e prevedere i cambiamenti climatici futuri
45. Kellogg, William W. (1971). “Predicting the Climate.” In Man’s Impact on the Climate [Study of Critical Environmental Problems (SCEP) Report], edited by William H. Matthews, et al., pp. 123–32. Cambridge, MA: MIT Press.
46. Erik Isberg, op. cit. 2022
47. Ibidem
48. Ibidem
49. Quando un GCM viene espanso con questioni come la dinamica della vegetazione, di solito viene indicato come un modello del sistema terrestre (ESM). Le proiezioni del clima futuro sotto l’influenza dell’aumento dei gas serra sono generalmente effettuate con un ESM, ma spesso gli scienziati possono anche imparare molto usando un ACM più semplice.
50. La naturalizzazione è il fenomeno ecologico attraverso il quale una specie, un taxon o una popolazione di origine esotica (invece che autoctona) si integra in un dato ecosistema, diventando capace di riprodursi e crescere in esso, e procede a disseminarsi spontaneamente. In alcuni casi, la presenza di una specie in un dato ecosistema . cos. antica che non si può presupporre se sia autoctona o introdotta.
51. Erik Isberg, op. cit. 2022
52. Ibidem