BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XII • Numero 45 • Marzo 2023
Intuizioni dell’evoluzionismo e disorientamento interpretativo della realtà comune
Contravvenendo al pensiero convenzionale, come tradizione in BIO, permettiamoci di assumere che la Terra, con il suo splendente Eden Perduto, abbia avuto origine in un modo diverso dal racconto del Libro della Genesi. Azzardiamoci, per di più, ad immaginare un Pianeta Terra fuori dall’idea dell’eternità. Osiamo ora immaginare come potremmo immaginarci un tale Pianeta per nulla predisposto per noi e dove noi, umani, fossimo comparsi fortuitamente. E perfino recentemente, in relazione al tempo dilatato che vorremmo concedere ad una tale origine e ad un tale sviluppo. Come descriveremmo ciò che potremmo immaginare? Io, purtroppo, manco delle conoscenze per fare di meglio e immaginerei, tutt’al più, che abbia un cielo azzurro.
Qualcuna di voi, lettrici, oppure un lettore, potrebbe subito considerare banale l’esercizio mentale che propongo. Ormai è assodato che da più di un secolo abitiamo nel livello interpretativo dell’evoluzionismo, anche se contemporaneamente conviviamo con il racconto immaginale della creazione. La mia conoscenza e introiezione del modello evoluzionista di lettura della Vita e del Pianeta Terra è, in realtà, molto primaria. Questa mancanza, effettivamente, mi potrebbe spingere a pensare che ugualmente voi potreste ritrovarvi ammaliati, e poeticamente travolti come me, da molte delle intuizioni che l’evoluzionismo propone, come quelle riguardanti il ruolo delle Forme di Vita nella configurazione del Pianeta Terra.
Di fatto, ammetto di trovarmi di fronte ad una sollecitazione estrema a rivedere le mie consuete idee sulla Vita e sul Pianetta Terra quando, ad esempio, imparo che, stando agli evoluzionisti, come il mineralogista e astrobiologo Robert Hazen,[1] non sia stato il Pianeta Terra a creare, ordinatamente e in modo determinante, Forme di Vita ma, piuttosto, che sia stato quel Fenomeno che chiamiamo Vita a plasmare, con le sue forme, la Terra che conosciamo oggi. E se le cose stessero per l’appunto così, risulta regolare che mi domandi, seguendo un tale modello di interpretazione, se il cielo sia stato sempre blu e pure chieda a voi di immaginarvi una costruzione della Terra lavorata dagli apporti di incommensurabili forme di vita.
Quest’argomentazione ci impone, però, di iniziare facendo una distinzione analitica significativa tra i nostri concetti di Pianeta Terra e Vita. Al riguardo, durante quest’esposizione, Vita non è intesa come lo spazio temporale compreso tra la nascita e la morte di un individuo. Brevemente, per vita, fuori dell’uso comune precedentemente segnalato, si intende la forza attiva propria degli organismi animali e vegetali, in virtù della quale essi sono in grado di muoversi, reagire agli stimoli ambientali, conservare e reintegrare la propria forma e costituzione e riprodurla in nuovi organismi simili a sé. Nel suo senso più ampio il concetto andrebbe inteso come la proprietà o condizione di sistemi materiali (cioè i sistemi viventi, dagli organismi unicellulari a quelli pluricellulari più evoluti) caratterizzati da un alto grado di organizzazione e complessità, e di cui la cellula è considerata unità fondamentale. In questi sistemi, come descrive Robert Hazen, un numero elevato di sottosistemi, o organi diversi, concorrono funzionalmente a costruire un tutt’unico, per cui si parla di individuo vivente o organismo che dà luogo a capacità di crescita, sviluppo e movimento autonomo, di autoregolazione, di metabolizzazione, di adattabilità, di reattività e, soprattutto, di riproduzione, agamica (asessuata) o per mezzo di particolari cellule sessuali o gameti.[2] I sistemi viventi, come segnala lo stesso Hazen, formano il mondo organico.[3]
Constatata come proprietà di un quantità mastodontica di specie, la vita, nel senso ampio del concetto, è stata ricondotta a un principio unitario dalla teoria dell’evoluzione per selezione naturale (idea proposta da Charles Darwin) per cui si parla di origine della vita con riferimento a quel processo iniziale, da alcuni ritenuto eccezionale, da altri relativamente probabile, in cui la materia inorganica si sarebbe organizzata in strutture ordinate (cioè composti organici, in particolare, le macromolecole fondamentali: proteine e acidi nucleici) capaci di svilupparsi e riprodursi, da cui poi avrebbero avuto origine, in milioni di anni, le specie, estinte, o ancora viventi, che sono state osservate. I sistemi viventi sono visti come sistemi aperti (quindi non isolati), che si mantengono lontano dall’equilibrio grazie al continuo scambio di energia e materia con l’ambiente nel quale la crescita di entropia compensa abbondantemente il decremento di entropia del sistema, come documentano le ricerche dei professori David C. Castling e James Fraser Kasting.[4]
Ugualmente va precisato il modo di intendere il concetto che fa riferimento al Pianeta Terra durante quest’esposizione. Certamente tutti siamo stati educati a condividere la nozione che la Terra sia il terzo pianeta in ordine di distanza dal Sole e il più grande dei pianeti terrestri del sistema solare, sia per massa sia per diametro. Condividiamo anche l’informazione che ci istruisce sulla sua superficie nella quale si trova acqua in tutti e tre gli stati di aggregazione (solido, liquido e gassoso) e circa un’atmosfera composta in prevalenza da azoto e ossigeno che, insieme al campo magnetico che avvolge il pianeta, protegge la Terra dai raggi cosmici e dalle radiazioni solari.
Condividiamo, in termini di conoscenza, ugualmente l’idea che, essendo l’unico corpo planetario del sistema solare adatto a sostenere la vita come concepita e conosciuta da noi umani oggi, sarebbe l’unico luogo nel quale vivono tutte le specie viventi conosciute, stando alle ricerche in geobiologia e astrobiologia del professore Castling, per citarne alcune.[5] Non tutti, però, abbiamo una nozione chiara e sintetica della storia del Pianeta Terra, storia che descrive l’insieme dei più importanti eventi e stadi nello sviluppo e nell’evoluzione che avrebbe avuto luogo sul Pianeta Terra dalla sua formazione ad oggi.[6] Una tale descrizione comprende certamente le teorie a carattere scientifico ritenute più verosimili e quasi tutti i rami delle scienze naturali che contribuiscono alla comprensione degli avvenimenti nel passato del nostro pianeta.
Stando ai modelli di datazione condivisi dalle istituzioni del sapere dell’establishment, l’età della Terra è stata stabilita a 4,54 miliardi di anni, corrispondenti approssimativamente ad un terzo dell’età dell’universo, secondo i simili modelli di datazione. Immensi cambiamenti biologici e cataclismi geologici sarebbero avvenuti durante questo tempo, come argomenta il professore Robert Hazen, mineralogista e astrobiologo.[7] Ed è precisamente di questi cambiamenti che dovremmo avere una nozione per poter spingerci nel processo di immaginare la Terra prima che avesse un cielo blu.
Stando alle teorie circa l’origine del Pianeta, la formazione della Terra (e la contemporanea formazione del Sole e degli altri corpi del sistema solare) avrebbe avuto inizio dalla contrazione di una nebulosa di polvere interstellare. La nebulosa avrebbe dato luogo ad un disco proto-planetario con il Sole al suo centro e i pianeti in formazione per accrescimento di materiale, in orbita intorno, come suggeriscono i ragionamenti dei professori Catling e Kasting.[8]
Seguendo quest’interpretazione la Terra si sarebbe formata 9,2 miliardi di anni dopo il Big Bang[9] postulando inoltre che Il calore generato dagli impatti e dalla contrazione indicherebbe che si trovava in uno stato fuso, durante il quale avrebbe avuto luogo una differenziazione in strati, in cui si sarebbero formati un nucleo interno di elementi pesanti avvolto da un mantello ed una proto-crosta formati da elementi leggeri. Successivamente, la Terra si sarebbe raffreddata progressivamente, acquisendo una crosta solida in cui avrebbero preso forma i primi continenti.[10]
Questo paradigma evolutivo circa la storia della Terra postula poi che un continuo bombardamento di meteoriti e comete di ghiaccio avrebbe rifornito la Terra di un’enorme quantità di acqua che avrebbe creato gli oceani, mentre l’attività vulcanica e il vapore acqueo avrebbero creato una primitiva atmosfera, inizialmente priva di ossigeno. I continenti, attraverso la tettonica delle placche, si sarebbero uniti in supercontinenti, che in seguito si sarebbero separati di nuovo in un processo che si sarebbe ripetuto molte volte durante i quattro miliardi e mezzo di anni, seguendo le delucidazioni di David Catling.[11] La formazione di quest’atmosfera primitiva è, precisamente, il punto di partenza al quale volevo allacciarmi per riportarci alla sollecitazione di immaginarci una costruzione della Terra lavorata dagli apporti di incommensurabili forme di vita.
È a questo punto della storia della Terra, dalla prospettiva evolutiva, che le condizioni atmosferiche primordiali sarebbero state alterate in maniera preponderante dalla presenza di forme di vita che avrebbero creato un diverso equilibrio ecologico plasmando la superficie del pianeta, stando alle puntualizzazioni di Robert Hazen.[12]Le reazioni chimiche avrebbero portato alla formazione di molecole organiche che avrebbero interagito per formare strutture ancora più elaborate e complesse e, infine, avrebbero dato luogo a molecole che erano in grado di riprodurre copie di sé stesse. Questa abilità avrebbe dato una spinta notevole all’evoluzione e avrebbe portato alla generazione della Vita, come argomenta il ricercatore in geobiologia e astrobiologia, professore David Catling.[13]
Stando ai lavori fino a questo momento citati,[14] all’inizio la vita avrebbe cominciato sotto forma di organismi monocellulari, ma in seguito si sarebbe sviluppata la pluricellularità, e quindi un processo evolutivo superiore quale la fotosintesi, che avrebbe fornito di ossigeno l’atmosfera e avrebbe portato alla creazione di uno strato di ozono. Le forme di vita si sarebbero differenziate in molte specie e sarebbero divenute sempre più avanzate, colonizzando la terraferma e occupando gradualmente tutti gli habitat della Terra. Glaciazioni, eruzioni vulcaniche, e impatti meteoritici avrebbero causato molte estinzioni di massa, ma le specie rimanenti si sarebbero sviluppate in nuove forme e avrebbero ricreato sempre una nuova biosfera. Insomma, le condizioni atmosferiche primordiali sarebbero state alterate prevalentemente dall’intervento di forme di vita che avrebbero sviluppato un diverso equilibrio ecologico plasmando la superficie del Pianeta. In ogni caso, tutto ciò che riguarda la storia della Vita e della Terra resta una teoria indiretta ovvero mancante di verifica e osservazione diretta.[15]
L’idea che le incommensurabili Forme della Vita abbiano configurato la Terra
Ora, recuperata, se non altro, una nozione contestualizzata relativa ai concetti di atmosfera, di vita organica e di biosfera possiamo più agevolmente discorrere circa l’idea degli studiosi dell’evoluzione che propone che le forme incommensurabili di vita abbiano modellato la Terra. Per gli studiosi che condividono il paradigma dell’evoluzionismo, Darwin sarebbe stato il primo ad osservare, con un certo metodo, che tutte le forme di vita, dai vermi ai coralli, trasformano il Pianeta Terra. Osservazione che, oggi, a molti risulta ridondante ma che, in ogni modo, vorrei, in quest’occasione, accogliere in quanto portatrice di folgorazioni capaci di avviare intuizioni impensabili riguardo la nostra visione del mondo.
Accettando l’ipotesi delle forme di vita che modellano la Terra, potremmo, di conseguenza, considerare, assieme alla biologa evoluzionista[16] Olivia Judson,[17] che se la Terra non avesse mai preso Vita, sarebbe un mondo profondamente diverso. Il pianeta di oggi, però, per l’appunto, stando al modello della teoria evoluzionista, sarebbe stato, in misura notevole, reso quello che è dalle attività delle cosiddette forme di vita.[18] Nel corso della lunga storia del pianeta, una storia che risalirebbe, stando ai modelli di datazione degli studiosi, a più di 4,5 miliardi di anni fa, le forme di vita avrebbero plasmato le rocce, l’acqua, l’aria e persino il colore del cielo. Un Pianeta Terra che non avesse avuto una talmente lunga storia di vita generativa non avrebbe, stando a studiosi come Hazen e Ferry,[19] nemmeno tanti tipi diversi di minerali.
I postulati appena elencati costituiscono, effettivamente, il ritratto dipinto dalla moderna scienza della Vita e della Terra, una fusione di biologia e geologia che cerca di comprendere, in una visione evolutiva, il Pianeta Terra, e che unisce campi, apparentemente estranei, come lo studio del metabolismo batterico con la fisica delle atmosfere.[20]L’osservazione centrale di questo progetto di fusione sarebbe che, nel tempo, le forme di vita avrebbero alterato profondamente il tessuto di questo pianeta e questo, a sua volta, avrebbe alterato le circostanze in cui le forme di vita si sarebbero evolute.
Eppure l’idea che le forme di vita alterino la Terra non è nuova. Nella sua enciclopedica Histoire naturelle, générale et particulière (1749), il filosofo naturalista Georges-Louis Leclerc,[21] riflettendo sui prodigiosi cumuli di conchiglie fossili che compongono molte formazioni rocciose, affermava che sostanze come calcare, gesso e marmi, nonostante la loro natura inorganica, fossero il risultato delle attività di forme di vita organiche. In Hydrogéologie (1802), il protetto di Leclerc, Jean-Baptiste Chevalier de Lamarck è andato oltre, suggerendo che le attività delle forme di vita avessero plasmato la composizione minerale della Terra. Tuttavia, il primo studioso che avrebbe affrontato l’argomento con un approccio moderno sarebbe stato Charles Darwin. Infatti, sembra sia stato il primo ad aver tentato di misurare i cambiamenti che le piccole forme di vita avrebbero apportato al Pianeta e il primo ad avere un chiaro senso del perché tali forme avessero avuto un impatto, come riporta Olivia Judson nel suo saggio Our earth shaped by life.[22]Pensando all’Antropocene, l’età degli impatti umani sul Pianeta Terra, le lezioni del lavoro di Darwin non sarebbero mai state così rilevanti, sostiene la biologa dell’evoluzione.
Darwin, per il suo lavoro sull’evoluzione ovviamente, si è accreditato nel pantheon dei pensatori che avrebbero cambiato i nostri modi di interpretare il mondo, come Copernico, che sostenne il sistema eliocentrico contro il sistema geocentrico. Nel suo libro On the Origin of Species (1859) Darwin presenta, nel contesto delle convenzioni dell’epoca, una vasta gamma di analisi che propongono che l’evoluzione si verifichi, effettivamente, attraverso la selezione naturale, come lui stesso denominò il meccanismo mediante il quale tale processo avverrebbe. Sebbene molto sia stato appreso da allora e molte delle sue idee siano state estese, corrette o perfezionate, l’Origine rimane testo fondante della biologia moderna e costituisce l’apice del lavoro di Darwin. Ma, la prima monografia a carattere scientifico di Darwin (The Structure and Distribution of Coral Reefs) e pure l’ultima (The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, with Observations on Their Habits), i due capisaldi del suo pensiero, per così dire, riguardavano entrambe il modo in cui alcuni animali, nello specifico i coralli[23] e i vermi, in vasti lassi di tempo, avrebbero trasformato il paesaggio.
The Structure and Distribution of Coral Reefs e The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, with Observations on Their Habits
Questi due lavori di bio-geologia – uno sulle barriere coralline, l’altro sui lombrichi – sono considerati da studiosi della materia,[24] i primi studi dettagliati sull’argomento mai pubblicati. A un’ispezione casuale, sembrano essere imprese non correlate ma semplicemente una parte del lungo ed eclettico elenco di interessi di Darwin, insieme a cirripedi, orchidee, piante carnivore, code di pavone, le emozioni degli umani e di altri animali, i vulcani del Sud America e via dicendo. Questa impressione è rafforzata dal fatto che le due opere differiscono notevolmente nello stile e sono state pubblicate a quasi 40 anni di distanza. La prima di queste monografie, The Structure and Distribution of Coral Reefs è apparsa nel 1842, mentre la seconda sui lombrichi, The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, with Observations on Their Habits, uscì nel 1881, appena mesi prima della sua morte. Ma, in realtà, queste due trattazioni riflettono interessi duraturi e, insieme al suo lavoro sull’evoluzione, mostrano una visione del Pianeta Terra sbalorditiva nella sua completezza e magnifica nella sua portata. Darwin aveva una concezione straordinariamente completa del funzionamento della natura, anticipando, come fa notare Olivia Judson,[25] di oltre un secolo le idee attuali sulla coevoluzione della Vita e della Terra.
Per tutta la vita, Darwin si mostrò interessato al potere di un numero gigantesco di piccole cose che, stando a lui, avrebbero avuto un impatto colossale, agendo lentamente, nel corso di anni, decenni e secoli accumulati su secoli. In questo, sembra ispirato dal lavoro di Sir Charles Lyell,[26] che avrebbe sostenuto che il cambiamento geologico avvenisse attraverso processi lenti e graduali accumulati in vasti intervalli di tempo. Darwin avrebbe preso quell’idea e l’avrebbe applicata alla biologia, rendendola l’intuizione unificante del suo lavoro sui coralli, sull’evoluzione e sui vermi. Si tratta di un’intuizione semplice ma curiosamente risulta particolarmente difficile lasciarci permeare. In effetti, il cervello umano si è evoluto ponderando la percezione del tempo, sua inerente invenzione, in termini di ore, giorni, mesi, forse qualche anno. Concepire i cambiamenti sommati nel corso di decenni, secoli, millenni e oltre, negli intervalli vertiginosi della storia della Terra, risulta molto più difficile e sfuggente. Inoltre, in generale, non siamo abituati a concepire azioni e/o effetti in termini di singoli piccoli agenti. Di fatto, un singolo lombrico non ha un significato particolare. Ma con abbastanza vermi e tempo, sosteneva Darwin, interi paesaggi sarebbero stati trasformati. I coralli sono ugualmente animaletti insignificantemente piccoli e tuttavia, con un’abbondanza di essi, più qualche milione di anni, questi organismi minuscoli possono costruire strutture gigantesche come le barriere coralline. Come osservava Darwin stesso:
Siamo sorpresi quando i viaggiatori ci parlano delle vaste dimensioni delle Piramidi e di altre grandi rovine, ma quanto sono assolutamente insignificanti quelle più grandi di queste, se paragonate a queste montagne di pietra accumulate dall’azione di svariati animali piccoli e teneri!
Scrisse queste parole in The Voyage of the Beagle (1839), un resoconto delle sue avventure e osservazioni durante una circumnavigazione del globo durata cinque anni.[27] La nave salpò dall’Inghilterra il 27 dicembre 1831, quando Darwin aveva solo 22 anni. Nel corso di questo viaggio visitò Sud America, Nuova Zelanda e Australia, oltre a un certo numero di piccole isole, tra cui Capo Verde, Galápagos, Tahiti, Cocos (Keeling) e Mauritius.
Sulla formazione degli atolli corallini
Durante questo viaggio, Darwin avrebbe sviluppato una teoria sulla formazione degli atolli corallini – anelli di isole basse e piatte attorno a una laguna centrale – che punteggiano gli oceani Pacifico e Indiano. Sorprendentemente, avrebbe sviluppato le sue idee prima di aver mai visitato un atollo o visto una barriera corallina, lavorando, invece, con un processo di deduzione dalle osservazioni fatte mentre studiava la geologia della costa ovest del Sud America.[28] L’opportunità di ispezionare di persona un atollo si sarebbe presentata, stando al racconto del suo viaggio,[29]molti mesi dopo, quando l’HMS Beagle fece scalo alle isole di Cocos (Keeling), nell’Oceano Indiano, nell’aprile del 1836, sei mesi prima che la nave tornasse in Inghilterra. La nave avrebbe trascorso 12 giorni sulle isole, dando a Darwin tutto il tempo per esplorarla e fare osservazioni. Un giorno, quando il mare era calmo e la marea era bassa, si sarebbe spinto verso i bordi esterni della scogliera “con l’aiuto di un’asta”, curioso di esaminare i coralli che “spezzano la violenza del mare aperto”.[30]
Gli atolli, infatti, hanno una serie di caratteristiche peculiari. Innanzitutto, sono bassi e piatti. Come ha osservato Darwin stesso, “ci sono aree enormi nell’Oceano Pacifico e nell’Oceano Indiano, in cui ogni singola isola è formata da coralli ed è sollevata solo a quell’altezza a cui le onde possono vomitare frammenti e i venti accumulano sabbia”.[31]In secondo luogo, appaiono improvvisamente nelle parti profonde dell’oceano. Terzo, tendono a raggrupparsi. Infine, sembrano costruiti da forme di vita che amerebbero vivere in acque calde, soleggiate e poco profonde e, tuttavia, si trovano dove l’oceano è profondo. Quest’aspetto starebbe a significare per Darwin che gli atolli, necessariamente, dovevano essersi conformati sopra una sorta di struttura sottomarina.
A quel tempo, stando alle considerazioni di Olivia Judson,[32] quelle strutture erano immaginate come bordi di crateri di vulcani sommersi, un’idea che Darwin, secondo la biologa evolutiva in questione, trovò “mostruosa” e “quasi troppo assurda per essere menzionata”. L’avrebbe contestata, in parte, perché i singoli atolli potevano misurare più di 130 chilometri di diametro, il che presupporrebbe la presenza di centinaia di crateri vulcanici di dimensioni inaudite tutti vicini, ma straordinariamente mai sporgenti sopra la superficie del mare.[33]
Considerando questa caratteristica, Darwin avrebbe suggerito, invece, che gli atolli si formassero sulle pendici di vulcani che starebbero lentamente affondando.[34] Un brevissimo sunto dell’idea di Darwin potrebbe essere abbozzato, utilizzando la guida della studiosa Olivia Judson,[35] nel seguente modo. Un vulcano erutta e costruisce un’isola in mezzo all’oceano. Gli organismi corallini si stabiliscono sulle sue pendici, lussureggiando nelle acque calde, poco profonde e illuminate dal sole, e iniziano a costruire gli scheletri calcarei che, insieme, formeranno una barriera corallina. Se poi il fondale marino iniziasse a sprofondare, il vulcano affonderebbe gradualmente sotto le onde, ma i coralli continuerebbero a crescere verso l’alto, in modo da rimanere nelle secche. Finché il vulcano non affonderebbe troppo velocemente, i coralli potrebbero tenere il passo con la sua discesa. Sulla costa occidentale del Sud America, Darwin avrebbe osservato terremoti che sollevavano pezzi di terra verso l’alto. Dinanzi a tale esperienza, avrebbe invertito l’idea e avrebbe considerato cosa sarebbe successo se la terra fosse affondata.
Il fatto che qualsiasi isola fosse in qualche modo costruita e modellata da forme di vita avrebbe un importante corollario. La pietra è dura, ma dato abbastanza spazio di tempo, gli stadi della pietra potrebbero essere ridotti a praticamente nulla. Nel caso degli atolli, la pietra verrebbe, però, continuamente ricostruita. Oppure, come dice Darwin stesso:
L’oceano che getta le sue acque sull’ampia scogliera sembra un nemico invincibile e onnipotente; eppure la vediamo resistere, e perfino conquistare l’oceano, con mezzi che a prima vista sembrano debolissimi e inefficienti… È impossibile scrutare queste onde senza sentire la convinzione che un’isola, sebbene costruita con la roccia più dura, sia porfido, granito, o quarzo, alla fine cederebbe e verrebbe demolita da un potere così irresistibile. Eppure questi bassi, insignificanti isolotti corallini resistono e sono vittoriosi: perché qui un’altra potenza, in quanto antagonista, prende parte alla gara. Le forze organiche separano gli atomi di carbonato di calce, uno per uno, dai demolitori schiumogeni, e li uniscono in una struttura simmetrica. Che l’uragano strappi i suoi mille enormi frammenti; ma cosa dirà questo contro il lavoro accumulato di miriadi di architetti al lavoro notte e giorno, mese dopo mese?[36]
Dal momento che i coralli non possono sopravvivere a molta esposizione all’aria, non crescono sopra la superficie del mare, il che spiegherebbe perché gli atolli siano così piatti. Nel frattempo, le onde sollevano frammenti di corallo spezzato e i venti accumulano sabbie, creando bassi isolotti e banchi di sabbia. Le noci di cocco e altri semi vengono lavati e germogliano, creando vegetazione e, con essa, l’isola deserta per eccellenza. Alla fine, un vulcano potrebbe svanire molto al di sotto delle onde, lasciando solo il corallo come indicatore della sua esistenza. Seguendo un tale ragionamento, Darwin postulò che ogni atollo fosse un requiem per un vulcano, oppure “un monumento su un’isola ormai perduta”.[37] La sua argomentazione lo portava a fare una chiara previsione: da qualche parte sotto ogni atollo, sotto tali immensi cumuli di roccia costruiti dalla vita, sotto queste montagne di calcare, si troverebbero i resti di un vulcano.
Darwin non aveva i mezzi per trivellare un atollo e testare direttamente la sua idea. Al suo ritorno in Inghilterra, invece, si sarebbe imbarcato in uno studio massiccio, una specie di logica della barriera corallina comparata. Stando a Olivia Judson,[38] si trattava di un’analisi esauriente del tipo che avrebbe impiegato più e più volte nel suo lavoro. Avrebbe trascorso molti mesi leggendo resoconti di viaggi precedenti e studiando attentamente le carte nautiche, classificando le barriere coralline in base al fatto che fossero atolli, barriere coralline o frange coralline che crescono vicino alla costa. Avrebbe visto questi tre tipi di barriera corallina come parti di un continuum, sostenendo che, nelle aree di cedimento del fondale marino, le barriere coralline inizierebbero come scogliere e frange vicino alla costa, si svilupperebbero in barriere coralline e finirebbero come atolli. Nel corso di questo lavoro, avrebbe compilato la prima mappa globale delle barriere coralline mai prodotta.[39]
Per mettere meglio in prospettiva le ipotesi di Darwin, va segnalato come osserva Olivia Judson[40] che all’epoca nessuno sapeva che i coralli vivessero in acque poco profonde perché ospitano forme di vita unicellulari simbiotiche che richiedono la luce solare per crescere. L’appendice di The Structure and Distribution of Coral Reefs descrive in dettaglio dove aveva ottenuto le sue informazioni e come aveva determinato la natura di ogni barriera corallina. Opera di stile difficile ma straordinariamente ricca di intuizioni, non solo sulla formazione degli atolli ma, anche, sulla storia della Terra e del ruolo dei piccoli organismi nel plasmare ciò che ad oggi si presenta alle nostre intuizioni interpretative come la sua parvenza.
Tuttavia, nonostante la chiarezza che si possa riconoscere nel suo ragionamento e nonostante il volume delle sue documentazioni, in termini di evidenze, non tutti i suoi contemporanei studiosi della materia erano convinti. Stando al racconto di Olivia Judson,[41] Darwin, verso la fine della sua vita, si sentiva frustrato dalla non accettazione generale della sua teoria sulla formazione degli atolli e avrebbe desiderato che in futuro qualcuno avesse i mezzi per testare le sue ipotesi organizzando spedizioni agli atolli dell’Oceano Indiano e del Pacifico allo scopo di trivellare in profondità sotto gli atolli e verificare le sue idee. A quanto riferito dalla Judson, Darwin pensava che sarebbero stati sufficienti perforazioni a una profondità di 152-183 metri.
La formazione della terra vegetale (terriccio) per l’azione dei lombrichi
Nel 1881 viene pubblicato lo studio di Darwin sui lombrichi The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, with Observations on Their Habits. Darwin, avrebbe studiato i lombrichi per decenni. Nel novembre 1837, poco più di un anno dopo essere tornato dal suo viaggio intorno al mondo, tenne un breve discorso sui vermi alla Geological Society of London e, un paio d’anni dopo, pubblicò un breve articolo[42] su di loro. In quest’articolo, Darwin descrisse diversi campi che avrebbe visitato con suo zio. Ciascuno di questi campi sarebbe stato ricoperto da uno strato superficiale di materiali simile alle cenere alcuni anni prima. Ma, in ogni caso, lo strato sarebbe incomprensibilmente scomparso. Darwin avrebbe scavato delle buche nei campi per verificare l’accettabilità delle sue intuizioni, scoprendo, in effetti, che i materiali sovrapposti si trovavano ora ad una certa profondità sotto la superficie. Suo zio avrebbe ipotizzato che tale spostamento fosse dovuto alle attività dei lombrichi. Mentre scavavano nel terreno, i vermi, avrebbe suggerito suo zio, agivano come aratri al rallentatore. Complessivamente, le osservazioni sarebbero state così interessanti che William Buckland, un autorevole geologo dell’epoca, suggerì che Darwin avesse identificato “un nuovo potere geologico”.
Quando la famiglia di Darwin iniziò ad espandersi, lui e sua moglie avrebbero deciso di trasferire da Londra.[43]Nell’agosto del 1842, pochi mesi dopo la pubblicazione di The Structure and Distribution of Coral Reefs, i Darwin avrebbero acquistato una casa in campagna con un po’ di terreno. Subito dopo essersi trasferito, lui avrebbe messo da parte una porzione di quel terreno per testare l’ipotesi di suo zio riguardo ai lombrichi. Chiaramente, si trattava di un progetto a lungo termine. Darwin avrebbe previsto che il campo rimanesse indisturbato per molti anni. Nella sua scienza, come nei suoi pensieri sul funzionamento del mondo, abbracciava una visione lunga e lenta, come puntualizza Olivia Judson.[44]
I lombrichi, effettivamente, scavano nel terreno mangiandolo. Rosicchiano anche materia organica come le foglie morte. Per defecare, generalmente vengono in superficie, dove espellono, come disse Darwin stesso, “piccoli cumuli a forma di intestino” noti come rigetti.[45] Stando alla Judson,[46] sulla base delle sue conversazioni con suo zio, Darwin sospettava che i vermi lavorassero il terreno, portando in superficie particelle fini dalle profondità del terreno. Come risultato di queste ripetute azioni, pensava, il suolo sarebbe stato lentamente rigirato e mescolato. Per cui, come risultato dell’azione dei lombrichi, verrebbe sollevato nuovo suolo mentre gli oggetti in superficie si sarebbero cosparsi di terra e, con il passare degli anni, sarebbero stati gradualmente sepolti.
Per misurare quanto tempo avrebbe potuto richiedere una tale processo di sepoltura, nel 1842 Darwin avrebbe fatto spargere grumi di gesso sulla superficie del campo destinata ai suoi esperimenti. Ventinove anni dopo, avrebbe fatto scavare un fosso attraverso tale terreno. Il gesso, stando alla documentazione dei suoi esperimenti,[47] ora formava una linea che attraversava il suolo, a circa 18 centimetri sotto la superficie. Da ciò, Darwin avrebbe calcolato che in ciascuno degli anni successivi i vermi avrebbero ricoperto il terreno con uno strato di terriccio che era, in media, spesso 0,56 centimetri. Qualcosa di simile sarebbe accaduto anche ad una fila di lastre di pietra che avrebbe posizionato nel 1843 per fare un sentiero attraverso il prato del suo giardino. “Per diversi anni il sentiero è stato sarchiato e mantenuto pulito; ma alla fine prevalsero le erbacce e i lombrichi, e il giardiniere smise di pulire.” Le pietre sarebbero gradualmente scomparse sotto l’erba.[48]
Una singola prova non sarebbe bastata allo spirito moderno di ricerca adoperato da Darwin per cui, ancora una volta, raccolse quanta più informazione di svariate fonti gli fu possibile per supportare le sue affermazioni e contrastare potenziali obiezioni. Avrebbe perfino intrapreso sperimentazioni per cercare di costruirsi un modello interpretativo riguardante come i vermi percepiscono il mondo.[49] Poiché avrebbe notato che i vermi sgranocchiavano le foglie del cavolo ma non mangiavano né il timo né la salvia, ironicamente si sarebbe chiesto se fossero organismi con preferenze attive, cioè organismi con un palato specificato. Inoltre, avrebbe osservato che le foglie non servono solo come cibo ma che i lombrichi rivestono spesso le loro tane di foglie, forse “per impedire ai loro corpi di entrare in stretto contatto con la terra fredda e umida”.[50] Avrebbe pure raccolto un gran numero di osservazioni fatte da altri studiosi, avvalendosi dell’aiuto di quattro dei suoi figli nonché di corrispondenti in luoghi diversi come l’India, l’Australia, il Brasile e il Venezuela.[51]
Gran parte di questo lavoro di documentazione era proprio meticoloso, consistente nel raccogliere e pesare quei mucchietti di terra espulsa dai lombrichi a forma di intestino. Uno degli sforzi più arditi sarebbe stato compiuto da sua nipote, Lucy Caroline Wedgwood. Per un anno, quasi quotidianamente, avrebbe raccolto e pesato rigetti di lombrichi da due appezzamenti prescelti per l’esperimento, ciascuno di poco meno di un metro quadrato. Nell’appezzamento meno produttivo, i lombrichi avrebbero rigurgitato poco meno di 2 chilogrammi di terriccio per metro quadrato all’anno, quantità che presa singolarmente avrebbe scarso significato. Ma rapportando questi numeri in una scala di grandezza, nello spazio e nel tempo, i risultati diventerebbero più che significativi. Darwin avrebbe stimato che i vermi muoverebbero tra 18,98 e 45,49 tonnellate di terriccio per ettaro all’anno, a seconda di dove vivano.[52] Avrebbe calcolato che, considerando insieme le aree amiche dei vermi dell’Inghilterra e della Scozia, i lombrichi avrebbero mosso, nel linguaggio di oggi, più di 325 trilioni di tonnellate di terriccio nel corso di un milione di anni.[53]
Se, stando ai suoi esperimenti, i vermi seppellirebbero pezzetti di gesso, Darwin assumeva che avrebbero seppellito anche altri oggetti lasciati cadere a terra, come monete, strumenti antichi e perfino gioielli d’oro. Secondo lui il potere dei vermi non si sarebbe limitato a questi seppellimenti. Per analogia con le lastre di pietra che affondavano nel suo giardino, lui avrebbe avuto anche il sospetto che i vermi potessero causare perfino il seppellimento di antiche rovine. Al suo avviso, scavando sotto, i vermi avrebbero potuto far crollare costruzioni umane importanti facendole sprofondare nel terreno. Poi portando il suolo in superficie, a poco a poco avrebbero coperto le rovine.[54] Per verificare questa sua ipotesi nell’agosto del 1877 Darwin si sarebbe spostato nel Surrey per assistere allo scavo delle rovine di una villa romana.
Stando al racconto, un mattino, dopo che l’atrio della villa era stato scavato e pulito dal terriccio, Darwin si sarebbe inginocchiato per ispezionare il pavimento piastrellato e avrebbe trovato diversi mucchietti di terriccio lasciati dai vermi. I vermi sarebbero saliti attraverso piccole fessure tra le piastrelle. Strappando via i rigetti freschi, Darwin sarebbe riuscito persino a sorprendere diversi vermi nell’atto di ritirarsi nelle loro gallerie. Da ciò che avrebbe osservato sul sito archeologico, Darwin avrebbe concluso che i vermi sarebbero stati i principali responsabili della sepoltura della villa in questione. “Gli archeologi probabilmente non sanno quanto devono ai vermi per la conservazione di molti oggetti antichi”, avrebbe dichiarato.[55]
Mettendo insieme i suoi risultati, Darwin voleva documentare la sua ipotesi che proponeva che i lombrichi avessero diversi effetti importanti. Primo, i vermi non si limiterebbero a mescolare il suolo portando in superficie del terriccio. Secondo, sgranocchiando le foglie cadute e spingendo quelle foglie nelle loro gallerie o tane, genererebbero nuovo terriccio arricchito con un composto nutriente. Inoltre, man mano che i lombrichi si fanno strada attraverso il suolo, lo macinerebbero in particelle più piccole, rompendo piccole pietre, rendendo il suolo un terriccio di consistenza fine. Le tane dei lombrichi, che in alcuni punti possono essere profonde ben più di un metro, fungerebbero anche da canali che irrigherebbero e arieggerebbero il suolo, facilitando alle piante l’inoltro delle loro radici.[56]
Nel tempo, queste attività di movimento del suolo eseguita dai lombrichi, descritte e interpretate da Darwin, trasformerebbero il paesaggio. I rigetti dei vermi non rimarrebbero sempre fermi perché pioggia, vento e gravità confluirebbero nello spostare parte del terriccio che i vermi avrebbero sollevato, tendendo a mandarlo a valle. Misurando i rigetti dei vermi di terra, prima e dopo il vento e la pioggia, su pendii di diversa pendenza, Darwin avrebbe documentato che, ogni anno, una parte del suolo espulso dai lombrichi scorre a valle. Mentre, da un anno all’altro, questo sarebbe un impercettibile strisciamento, nel corso di molti secoli, questo movimento farebbe una significativa aggiunta. O, come disse Darwin:
Quando osserviamo un’ampia distesa coperta di zolle, dovremmo ricordare che la sua levigatezza, da cui dipende gran parte della sua bellezza, è dovuta principalmente al fatto che tutte le disuguaglianze sono state lentamente livellate dai vermi. È un riflesso meraviglioso che l’intero terriccio superficiale su una tale distesa sia passato, e passerà ancora, ogni pochi anni attraverso i corpi dei vermi. L’aratro è una delle più antiche e preziose invenzioni dell’uomo; ma molto prima che esistesse la terra era infatti regolarmente arata, e continua ad essere così arata dai lombrichi.[57]
Queste osservazioni di Darwin, ormai consolidate nelle interpretazioni recenti della storia della Terra, sono ciò che consente di asserire, con un’iperbole emotiva, che i vermi possono sembrare insignificanti ma, poiché sono così tanti, a poco a poco scolpirebbero i contorni del mondo.
Conferme delle idee di Darwin circa la formazione degli atolli
Più di un decennio dopo la morte di Darwin nel 1882, si è presentata l’occasione di verificare se, come sosteneva Darwin, da qualche parte sotto ogni atollo si trovassero davvero i resti sommersi di un vulcano. Per mettere alla prova l’idea, nel 1896 la Royal Society of London inviò una spedizione nell’atollo di Funafuti, nell’Oceano Pacifico meridionale. Dopo due anni di lotte e false partenze, il team sarebbe riuscito a perforare fino a una profondità di 340 metri, un risultato notevole dato che stavano lavorando con un trapano alimentato da un motore a vapore alimentato a carbone e tutto questo combustibile, che ammontava a ben oltre 140 tonnellate, doveva essere spedito via mare.[58]Ma nonostante avessero scavato così in profondità, in effetti, più in profondità dei 180 metri suggeriti da Darwin, non avrebbero trovato altro che i resti di coralli e altre forme di vita che costruiscono la barriera corallina. Anche negli anni ’30, i giapponesi avrebbero inviato una spedizione a Kitadaitōjima, isola dell’arcipelago delle Daitō. Questa squadra avrebbe perforato fino a 431 metri ma, ancora una volta, avrebbero trovato solo calcari e conchiglie costruiti dalla vita. In entrambi i casi, i costruttori di scogliere erano chiaramente cresciuti in acque poco profonde, una scoperta coerente con l’idea di subsidenza;[59] ma la prova decisiva dell’ipotesi di Darwin rimase sfuggente.[60]
Negli anni ’40 e ’50, il governo degli Stati Uniti di America testò dozzine di armi nucleari nelle Isole Marshall, un gruppo di atolli che si trovano in una parte remota del Pacifico poco a nord dell’equatore. Ciò portò una miriade di studiosi – geologi, biologi, oceanografi – a studiare l’area. Nel 1952, un team di geologi organizzato dagli stessi Stati Uniti perforò in profondità l’atollo Enewetak.[61] A 1.283 metri, avrebbero colpito il basalto, una roccia vulcanica.[62]Finalmente, Darwin aveva ragione circa la sua teoria sulla formazione degli atolli.
50 milioni di anni fa il Pianeta Terra era veramente un altro mondo
Stando alla biologa evolutiva Olivia Judson, i fossili trovati nei calcari appena sopra il basalto mostrerebbero che le barriere coralline dell’atollo Enewetak avrebbero iniziato a crescere più di 50 milioni di anni fa, datazione suggerita utilizzando gli attinenti modelli. Allora, il Pianeta Terra era un altro mondo. L’Oceano Atlantico sarebbe stato molto più stretto di quanto non lo sia oggi, gran parte dell’Antartide sarebbe stata ricoperta di foreste e le montagne himalayane dovevano ancora essere sollevate. Questi spunti suggeriti dalla Judson potrebbero portare certe sensibilità a considerare quanto estraneo risulta pensare che quando i coralli dell’Enewetak iniziarono a crescere per la prima volta il Monte Everest, la vetta più alta del mondo oggi, fosse ancora milioni di anni nel futuro, cioè non esistesse ancora.
La crescita dei coralli dell’Enewetak non sarebbe stata continua perché a volte il livello del mare si sarebbe abbassato o l’atollo si sarebbe alzato, esponendo i coralli all’aria e alla pioggia, uccidendo le forme di vita e permettendo l’erosione della roccia sopra la superficie del mare. Anche così, oggi, il volume di calcare, di roccia costruita dalla vita, che compone l’atollo sarebbe stimato in più di 1.000 chilometri cubi. E questo volume sarebbe solo riferito ad un solo atollo: l’Enewetak. Per rendere l’idea la Judson suggerisce di pensare che tale volume corrisponderebbe alla costruzione della Grande Piramide di Giza per 400 volte.[63] Il paragone risulta abbastanza peculiare se si pensa che la stessa Grande Piramide sia stata costruita, principalmente, da pietre calcaree, calcare costruito a sua volta da forme di vita organica. Inoltre, in questo caso non si tratta di una barriera corallina, ma di una roccia costruita da giganteschi accumuli di gusci di nummuliti,[64] forme di vita unicellulari che vissero e morirono in gran numero subito dopo che i coralli avrebbero iniziato a crescere sull’Enewetak.[65]
Darwin avrebbe sottovalutato la portata dei cambiamenti sulla Terra causati da altre forme di vita oltre i vermi
Ma se Darwin ebbe ragione sui coralli, per un aspetto fondamentale aveva torto sui vermi, stimando eccessivamente l’impatto delle loro azioni sulla configurazione della Terra. Infatti, alla fine di The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, with Observations on Their Habits osserva: “Si può dubitare che ci siano molti altri animali che abbiano avuto un ruolo così importante nella storia del pianeta, come l’hanno avuto queste creature umili”. In questo, però, avrebbe sottovalutato la portata dei cambiamenti causati da altre forme di vita.
Prima di tutto, i processi di aratura descritti da Darwin non si limitano ai lombrichi perché esistono diversi animali scavatori che avrebbero effetti su scale diverse. Le formiche, ad esempio, tendono a portare in superficie granelli molto fini di sabbia o terra. Anche se i granellini vengono generalmente sollevati pochi alla volta, in alcuni punti le formiche sono così abbondanti che spostano molte tonnellate di suolo per ettaro all’anno. Già in un vecchio studio che sarebbe stato direttamente ispirato dal lavoro di Darwin sui lombrichi, Geological Work of Ants in Tropical America(1910), l’autore, John Casper Branner, avrebbe stimato che le formiche in Brasile sarebbero responsabili dello spostamento di una quantità considerevolmente maggiore di suolo per ettaro ogni anno rispetto ai lombrichi in Inghilterra. Nel frattempo, animali scavatori più grandi, come i tassi, scavano enormi cumuli di terra, creando collinette che possono durare per secoli, per non parlare delle attività di spostamento terra di bandicoot, castori, scoiattoli, geomidi, suricati, topi e talpe o di uccelli scavatori e dei necrofori.[66]
E questa attività di spostamento terra non si verificherebbe solo a terra. Basterebbe infatti camminare su quella parte di una spiaggia o distesa fangosa che viene coperta dalle onde quando la marea è alta ma esposta quando la marea è bassa per poter osservare minuscoli granchi, anche non più grandi di un’unghia, scavare cunicoli con le loro quattro paia di arti. Oppure basterebbe indossare una maschera e guardare sotto la superficie dell’acqua e si troverà immediatamente un’incredibile varietà di animali che scavano il fondo marino.
Inoltre, gli animali scavatori non sono le uniche forme di vita ad avere un impatto planetario sostanziale. Lontano da esso. Anteriormente all’evoluzione dei primi alberi, circa 400 milioni di anni fa, i fiumi avrebbero avuto molte meno probabilità di vantare meandri e archi e altre caratteristiche che consentissero loro di raggiungere il mare. Anche le piante avrebbero contribuito a un grande aumento del fango, come documenterebbero i lavori di William McMahon e Neil Davies.[67] Antiche barriere coralline e banchi di conchiglie non solo avrebbero lasciato un’eredità di enormi cumuli di calcare[68] ma avrebbero anche alterato le forme delle montagne. Infatti, i calcari sono relativamente malleabili,[69] quindi si potrebbe pensare che, quando antiche scogliere e banchi di conchiglie venivano frantumati e amalgamati quali montagne, le catene montuose venivano sollevate perché la presenza di calcari nell’impasto avrebbe influenzato il modo in cui le montagne si sviluppavano, spingendo qualche studioso a suggerire un comparativo di maggioranza con il postulato che assume che più c’è presenza di calcari, più pieghe assumerebbero le montagne.[70] Anche i calcari così trattati, spesso, si sarebbero frantumato e si sarebbero trasformati in marmo. Molte delle più grandi sculture e monumenti del mondo sono state modellate e strutturate con la roccia costruita dalla vita e poi anche trasformata dalla Terra mentre costruisce le montagne. Infatti, il David di Michelangelo, a ben vedere è stato costruito con marmo formato da rocce create da forme di vita e poi frantumate, così come molti dei più grandi edifici e strutture dell’antica Roma.
Anche i batteri e gli archei avrebbero scolpito il Pianeta Terra
Molto prima che gli animali o le piante si evolvessero, inoltre, il Pianeta Terra veniva scolpito da forme di vita molto più piccole: batteri e archei. Di questi, i batteri sono molto più conosciuti, questo perché gli archei non sono stati identificati fino agli anni ’70. Visti al microscopio, gli archei[71] assomigliano superficialmente ai batteri: entrambi sono piccoli e tendono ad assumere forme come bastoncini o sfere. Così non è stato fino allo sviluppo di strumenti molecolari quando divenne chiaro che i due gruppi sono distinti. Poiché ci vorrebbe del tempo, evitiamo di enumerare tutti gli effetti che queste forme di vita, cioè i batteri e gli archei, avrebbero avuto. Infatti, possiamo limitarci ad accennare solo due esempi dei loro impatti. In primo luogo, alcune specie di archaea sono responsabili della generazione biologica di metano, un gas serra che riscalderebbe il clima. In secondo luogo, nessuna conversazione sugli impatti delle forme di vita sul pianeta sarebbe completa senza menzionare i cianobatteri. Queste forme di vita, precedentemente note come alghe blu-verdi, sarebbero, stando a studiosi come Olivia Judsom,[72] le forme di vita più importanti nella storia del pianeta. Al momento della loro evoluzione, più di 2,3 miliardi di anni fa, la Terra non avrebbe avuto molecole di ossigeno nell’aria. Invece, tutti gli atomi di ossigeno sarebbero stati legati all’acqua e alle rocce. I cianobatteri si sarebbero evoluti per utilizzare l’energia radiante del Sole nel separare le molecole d’acqua, un processo che all’incirca a metà della storia della Terra si tradurrebbe in un’atmosfera che conteneva molecole di ossigeno.
A quei tempi, l’ossigeno atmosferico non sarebbe stato sufficiente per sostenere voi o me, eppure il suo stesso aspetto avrebbe avuto diversi effetti di trasformazione. Poiché l’ossigeno è materiale reattivo, il suo arrivo avrebbe portato a una proliferazione di nuovi minerali, come descrivono l’evento Robert Hazen e John Ferry.[73] In effetti, la Terra iniziò allora ad arrugginire. Allo stesso tempo, l’avvento dell’ossigeno avrebbe portato alla formazione di uno strato di ozono, che proteggerebbe la superficie del Pianeta Terra dai raggi più dannosi del sole. La presenza di questo strato di ozono avrebbe cambiato radicalmente le circostanze in cui, successivamente, si sarebbero evolute le forme di vita sulla Terra. E poiché il colore del cielo sarebbe una conseguenza della composizione dell’atmosfera, anche le forme di vita avrebbero dipinto i cieli sopra di noi.
Si potrebbe continuare con un lungo elenco di tutti i cambiamenti che le forme di vita avrebbero apportato alla Terra. Ma torniamo all’idea di un Pianeta Terra che non fosse stato preceduto da forme di vita che poi lo avrebbero modellato, in modo di ritornare al tentativo iniziale di immaginare come sarebbe stato oggi il Pianeta Terra se nessuna forma di vita fosse mai emersa qui.
Come sarebbe stato oggi il Pianeta Terra se nessuna forma di vita fosse mai emersa?
Penso si possa asserire, senza dover attribuirlo ad uno scienziato, che gli schemi percettivi dell’umano medio siano, fondamentalmente, familiarizzati con ampiezze che riguardano le nostre ordinarie attività quotidiane. Per questa ragione non dovremmo sentire vergogna se rimanessimo sbalorditi dinnanzi alla sollecitazione di immaginarci come apparirebbe, nei nostri termini di cognizione umana e personale, il Pianetta Terra se mai fosse diventato organicamente vivo, se nessun organismo vivente avesse mai respirato o nuotato, rintanato o volato qui. È senz’altro impegnativo cercare di immaginare in che modo la Terra sarebbe diversa ora, a poco più di 4,5 miliardi di anni dalla sua storia, stando ai termini dei modelli di datazione elaborati al riguardo dalla nostra cultura umana.
All’inizio la risposta potrebbe sembrare semplice: basterebbe rimuovere le forme di vita, vale a dire strappare gli alberi, l’erba, i cespugli. Raschiare il muschio e i licheni dalle rocce. Fare sparire gli animali, annientare i funghi, far sparire i microbi, far tacere gli uccelli, le rane, le cicale. Svuotare gli oceani di pesci, meduse, polpi, balene, granchi; pulire gli stagni di chiazze e feccia. E poi, con tutte le forme di vita fatte scomparire potremmo pensare di aver finito di rimuovere le forme di vita.
Purtroppo il processo non terminerebbe così in fretta. Rimuovere le forme di vita sarebbe solo l’inizio. Infatti, per ricreare una Terra che non abbia mai avuto vita, dovremmo anche portare via i detriti della vita, comprendenti, ovviamente, tutte le cose che noi umani abbiamo fatto ma, anche, le foglie cadute, le perle, le ragnatele. Si dovrebbe setacciare il polline dal vento e svuotare il suolo da spore e semi. Si dovrebbe anche estrarre il guano dalle grotte dove si appollaiano i pipistrelli e dalle isole dove nidificano gli uccelli marini. Dovremmo riparare le fosse sul fondo del mare dove le balene frugano per il cibo, appiattire gli ammassi collinari sollevati dai piccoli mammiferi scavatori, i formicai e i termitai e rompere le dighe dei castori.
E ancora, una volta affrontata la vita di oggi, dovremmo rivolgere la nostra attenzione al passato. Dovremmo rimuovere i fossili, le prodigiose pile di ossa e conchiglie che ricoprono il pianeta, le vaste foreste pietrificate, le antiche barriere coralline. Dovremmo pure cancellare le impronte dei dinosauri, riempire le tane di vermi morti da tempo e cancellare le impronte dei fiori caduti. In aggiunta dovremmo sbarazzarci dell’ambra, aspirare il petrolio e spalare via grandi montagne di carbone.
E ancora non avremmo finito perché dovremmo annullare le trasformazioni apportate dalla vita che, all’inizio, sembrano non avere nulla a che fare con il pianeta. Dovremmo sbarazzarci del gesso, del marmo, dei diamanti. Anche molti tipi di minerali, più della metà,[74] dovremmo fare scomparire. Dovremmo aspirare l’ossigeno dall’aria e togliere lo strato di ozono. In più dovremmo spegnere gli incendi, pulire il carbone e strofinare la fuliggine dalle rocce. Dovremmo spazzare via il terriccio dalle rocce, affilare i bordi delle montagne e raddrizzare i meandri nei fiumi.
Più speculativamente, il cielo potrebbe non essere blu. La Luna potrebbe trovarsi a una distanza diversa dalla Terra e la lunghezza del giorno potrebbe non essere la stessa. Il clima sarebbe più caldo e più arido. Insomma, la Terra senza le forme di vita che l’avrebbero modellata non sarebbe la Terra di oggi. Non ci sarebbe nemmeno il verde. Sarebbe profondamente diverso: un pianeta estraneo a ciò che oggi conosciamo. Un umano, o qualunque altro animale, lì sarebbe stato ucciso in un istante, sopraffatto dall’aria soffocante e da livelli letali di radiazioni. Sarebbe un pianeta non solo senza vita, ma mortale per la vita organica che conosciamo.
Se gli studiosi in materia hanno ragione nelle loro considerazioni, noi umani non saremmo la prima specie a cambiare la Terra. Tutto il pensiero mainstream considera che attraverso le nostre attività, noi umani staremmo influenzando più dimensioni del sistema Vita-Terra rispetto a qualsiasi altra forma di vita in precedenza, e che gli impatti si starebbero accumulando più rapidamente. Gli effetti che le nostre civiltà starebbero avendo sul pianeta sarebbero senza precedenti nella loro portata e senza precedenti nella loro velocità.
Ancora una volta e conforme alle nostre umane percezioni un sacchetto di plastica non farebbe una discarica. Ma proviamo a fare Darwin e cerchiamo di riepilogare tutti gli impatti cumulativi, sommiamo tutti i sacchetti di plastica che gli umani abbiano mai prodotto e scopriremo che l’effetto potrebbe veramente risultare indigeribile. Riassunti simili si applicano agli impatti dei viaggi in auto, ai bicchieri di carta e alle cannucce di plastica, all’uso di fertilizzanti o a qualsiasi altro aspetto dell’attività umana che si voglia nominare. Ma se è indubbiamente vero che ci distinguiamo per la portata e la velocità dei nostri impatti, ci distinguiamo anche per la nostra possibilità di sviluppare consapevolezza. Per quanto si possa dire, noi umani saremmo le uniche forme di vita che siano mai state in grado di studiare il mondo e di avere delle nozioni circa cosa fossimo. Questo, razionalmente, porterebbe delle opportunità e spingerebbe molti razionalisti positivisti a considerare che noi umani, insieme, possiamo ridurre i nostri impatti e sviluppare un nuovo ethos di cura planetaria. Io però non penso che la vita sia razionale né ispirata da modelli metafisici o morali.
Questa rassegna circa la storia intrecciata della Vita e del Pianeta Terra volge alla sua fine, inevitabilmente, con un commento del tutto soggettivo e personale e con un ringraziamento alla biologa evolutiva Olivia Judson per spingermi, con il suo coraggio narrativo,[75] ad intrecciare la ricerca pura con le emozioni e l’estetica. Per prima volta avrei voluto fare il curatore di una tale storia per bambini. Trovo che divulgare che il cielo non sempre sia stato dipinto di blu e che perfino l’aria che respiriamo sia stata modellata da innumerevoli forme di vita vissute e morte addirittura milioni di anni fa sia un gesto generoso e fertile. Sento che questa visione della Vita che modella la Terra sia bella e toccante. Spero lo sia anche per voi, care lettrici e cari lettori, allargando le idee ristrettissime che potrebbero stare a limitare la nostra esperienza del mondo.
[1] Hazen, Robert M. Genesis: The scientific quest for life’s origins. Joseph Henry. Washington, D.C 2005 / Robert Miller Hazen è un mineralogista, astrobiologo e ricercatore presso l’organizzazione di ricerca scientifica Carnegie Institution of Washington’s Geophysical Laboratory e Clarence Robinson Professor of Earth Science presso la George Mason University, USA. È anche direttore esecutivo del Deep Carbon Observatory. L’astrobiologia è nuova branca della scienza che si occupa dell’origine e dell’evoluzione della vita sulla Terra e della possibile varietà della vita oltre la Terra.
[2] Ibidem
[3] Hazen, Robert M. Symphony in C: carbon and the evolution of (almost) everything. W. W. Norton & Company. New York, 2019
[4] Catling David C. and James F. Kasting. Atmospheric Evolution on Inhabited and Lifeless Worlds. Cambridge University Press, 2017 / David C. Catling è ricercatore presso il Deparment of Earth and Spece Sciences dell’University of Washington, nello specifico nell’Astrobiology Program e nell’ambito della geobiologia. James Fraser Kasting è un geoscienziato e Distinguished Professor of Geosciences presso la Penn State University.
[5] Catling David C. Astrobiology: A Very Short Introduction. Oxford University Press, 2013
[6] Ibidem
[7] Hazen, Robert M. The story of Earth: the first 4.5 billion years, from stardust to living planet. Penguin Books. New York, 2013
[8] Catling, David C. and James F. Kasting. op. cit. 2017
[9] Hazen, Robert M. op. cit. 2013
[10] Ibidem
[11] Catling David C. op. cit. 2013
[12] Hazen, Robert M. op. cit. 2013
[13] Catling David C. op. cit. 2013
[14] Hazen, Robert M. Genesis: The scientific quest for life’s origins. Joseph Henry. Washington, D.C 2005 / Hazen, Robert M. Symphony in C: carbon and the evolution of (almost) everything. W. W. Norton & Company. New York, 2019 / Catling David C. and James F. Kasting. Atmospheric Evolution on Inhabited and Lifeless Worlds. Cambridge University Press, 2017 / Catling David C. Astrobiology: A Very Short Introduction. Oxford University Press, 2013 / Hazen, Robert M. The story of Earth: the first 4.5 billion years, from stardust to living planet. Penguin Books. New York, 2013
[15] Ibidem
[16] La biologia evolutiva è la disciplina scientifica della biologia che analizza l’origine e la discendenza delle specie, così come i loro cambiamenti, la loro diffusione e diversità nel corso del tempo. Uno studioso di biologia evolutiva è noto come biologo dell’evoluzione o, meno formalmente, evoluzionista.
[17] Olivia Judson. Our earth shaped by life. AEON, 18 Nov 2022
[18] Ibidem
[19] Robert M. Hazen, John M. Ferry. Mineral Evolution: Mineralogy in the Fourth Dimension. Elements 6 (1): 9-12, 2010 Robert Hazen è un mineralogista e astrobiologo ricercatore presso il Carnegie Institution of Washington’s Geophysical Laboratory e Clarence Robinson Professor of Earth Science presso la George Mason University, negli Stati Uniti. Hazen è anche il direttore esecutivo del Deep Carbon Observatory. John Ferry con dottorato di ricerca in scienze geologiche ad Harvard nel 1975 lavora dal 1984 presso il Dipartimento di Scienze della Terra e Planetarie della Johns Hopkins University.
[20] Hazen, Robert M. op. cit. 2005
[21] Georges-Louis Leclerc (1707 – 1788) naturalista, matematico e cosmologo. Esponente del movimento scientifico legato all’Illuminismo, accreditato come uno dei primi naturalisti a riconoscere la successione ecologica, le sue teorie avrebbero influito sulle generazioni successive di naturalisti, in particolare sugli evoluzionisti Jean-Baptiste Lamarck e Darwin. Nel passato era chiamato naturalista uno studioso che si occupasse di argomenti riguardanti una o più branche delle scienze naturali, nella maggior parte dei casi la botanica, la zoologia, l’ecologia, la paleontologia, la geologia e la mineralogia; questa definizione viene talvolta utilizzata tuttora anche senza specifico riferimento ad eventuali titoli di studio o accademici.
[22] Olivia Judson. Our earth shaped by life. AEON, 18 Nov 2022
[23] Corallo – Per diversi secoli, la natura di questo strano organismo, simile a piccoli alberi fioriti attaccati alle rocce in fondo al mare, è stata oggetto di molti dibattiti da parte dei naturalisti. I coralli sono infatti piccoli animali, chiamati polipi, a forma di cetriolo di mare in miniatura che possono formare colonie. Questi polipi formano uno scheletro comune che per alcune specie diventa la base di una barriera corallina. Le prime osservazioni sul corallo furono fatte nel Mediterraneo da Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) sul corallo rosso (il tipo usato per fare gioielli). Una volta portato in superficie, il corallo morirebbe rapidamente. Così, era considerata una pianta marina che si trasformava in pietra quando veniva tolta dall’acqua. Non è stato fino alla metà del 18° secolo che è stato riconosciuto come un animale classificato nella grande famiglia degli animali pungenti, i Cnidaria.
[24] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[25] Ibidem
[26] Geologo e amico di Darwin. Nel suo capolavoro Principi di geologia (Principles of Geology), sviluppò nella sua versione definitiva la teoria dell’uniformitarismo, concepita inizialmente da James Hutton, ponendo le basi della moderna geologia. Secondo questa teoria, le forze che plasmano il mondo sono le stesse che hanno operato nel passato, e agiscono gradualmente e in modo pressoché costante su tempi molto lunghi. All’epoca a questa teoria si contrapponeva quella catastrofista sostenuta da Georges Cuvier e dallo stesso Buckland, secondo cui la terra andava incontro periodicamente a violente trasformazioni, intervallate da periodi di quiete. Una parte del successo di questa teoria era dovuto al fatto che sembrava accordarsi meglio ai passi biblici che trattavano della formazione della terra. L’uniformitarismo divenne però grazie alla convincente opera di divulgazione di Lyell il modello di evoluzione geologica accettato, e solo nel ventesimo secolo, con l’affermarsi della tettonica a placche, fu rimpiazzato da un modello differente in grado di spiegare più efficacemente i processi che agiscono sulla superficie del nostro pianeta
[27] Darwin, Charles (1839). Narrative of the surveying voyages of His Majesty’s Ships Adventure and Beagle between the years 1826 and 1836, describing their examination of the southern shores of South America, and the Beagle’s circumnavigation of the globe. Journal and remarks. 1832–1836. Vol. III. London: Henry Colburn.
[28] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[29] Darwin, Charles. op. cit. 1839
[30] Ibidem
[31] Ibidem
[32] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[33] Darwin, Charles. op. cit. 1839
[34] Darwin, Charles (1842), The Structure and Distribution of Coral Reefs. Being the first part of the geology of the voyage of the Beagle, under the command of Capt. Fitzroy, R.N. during the years 1832 to 1836, London: Smith Elder and Co, retrieved 20 January 2009
[35] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[36] Darwin, Charles (1842), The Structure and Distribution of Coral Reefs.
[37] Ibidem
[38] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[39] Ibidem
[40] Ibidem
[41] Ibidem
[42] Record: Darwin, C. R. 1840. On the formation of mould. [Read 1 November 1837] Transactions of the Geological Society (Ser.2) 5 (2): 505-509
[43] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[44] Ibidem
[45] Charles Darwin. The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, with Observations on Their Habits. John Murray, London, 1881
[46] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[47] Charles Darwin, op. cit. 1881
[48] Ibidem
[49] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[50] Charles Darwin, op. cit. 1881
[51] Ibidem
[52] Ibidem
[53] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[54] Charles Darwin. The Formation of Vegetable Mould. Op. cit. 1881
[55] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[56] Charles Darwin. The Formation of Vegetable Mould. Op. cit. 1881
[57] Ibidem
[58] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[59] In geologia, movimento della piattaforma continentale o del fondo marino, che tende ad abbassarsi sotto il peso dei sedimenti che gli si accumulano sopra; fenomeno tipico delle aree geosinclinali.
[60] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[61] Enewetak, o Eniwetok, è un atollo delle Isole Marshall nell’oceano Pacifico centrale. Consiste di circa 40 piccoli isolotti per un totale di 6 km² di superficie terrestre. Questi isolotti formano una laguna di 80 km di circonferenza.
[62] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[63] Ibidem
[64] Genere di foraminiferi estinti, protozoi fossili appartenenti alla famiglia Nummulitidae. Questi organismi hanno un guscio calcareo avvolto a spirale piana, suddivisa in diverse camere da setti trasversali. Le nummuliti sono dei veri giganti unicellulari, arrivando, negli esemplari più grandi, a superare i 10–12 cm di diametro (Eocene medio). Si ritrovano abbastanza frequentemente nelle rocce calcaree del Paleogene, tanto che quest’ultimo è stato chiamato anche “Nummulitico”. Calcari nummulitici sono frequenti nella regione mediterranea, sia sulla sponda europea che su quella africana. In Egitto calcari nummulitici eocenici sono stati utilizzati nell’antichità come materiale per costruire le grandi piramidi. La specie Nummulites gizehensis prende il nome dalla località di Gizeh (Giza), in Egitto. Le nummuliti hanno subito una rapida evoluzione e sono pertanto utilizzate come fossili guida. Il nome Nummulites deriva dal latino nummulus (monetina), a sua volta legato alla forma del guscio simile a quella di una moneta.
[65] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[66] Ibidem
[67] William J. McMahon and Neil S. Davies. Evolution of alluvial mudrock forced by early land plants. Science 359, 1022–1024 (2018
[68] Roccia sedimentaria il cui componente principale è rappresentato dal minerale calcite. I depositi di calcare, quindi il minerale stesso, sono più o meno compenetrati da impurità argillose o quarzitiche.
[69] Calcare: roccia sedimentaria classificata in base a criteri sedimentologici e composizionali come appartenente alle rocce allochimiche carbonatiche, cioè derivate dall’accumulo di particelle formatesi per precipitazione chimica o per secrezione organica all’interno di un bacino di sedimentazione; come tale, la sua composizione è sempre molto variabile in funzione delle “condizioni di formazione” in base alle quali tutte le rocce sedimentarie, comprese quelle carbonatiche, si suddividono in tre grandi gruppi: sedimenti chimici, sedimenti organogeni e sedimenti clastici. La parte prevalente delle rocce calcaree va inclusa nei sedimenti organogeni; una parte minore si è formata per precipitazione da soluzioni acquose soprasature come sedimenti chimici. Possono formarsi sedimenti calcarei clastici, qualora le rocce, formatesi originariamente per via chimica o organogena, vengano distrutte fisicamente e poi ricomposte in altro luogo. Le rocce calcaree partecipano solo per circa lo 0,25% alla formazione della crosta terrestre, ma rappresentano il terzo tipo di “roccia sedimentaria” più recente dopo gli scisti argillosi e le arenarie.
[70] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[71] Gli archèi o archèobatteri, nome scientifico Archaea (dal greco antico ἀρχαῖα, cioè antico) o Archaeobacteria che significa “batteri antichi”, sono una suddivisione sistematica della vita cellulare. Possono considerarsi regno o dominio a seconda degli schemi classificativi, ma mostrano strutture biochimiche tali da considerarsi un ramo basilare, presto distaccatosi dalle altre forme dei viventi. Nonostante il nome attribuito a questo taxon, gli archaea non sono i procarioti più antichi mai apparsi sulla Terra, ma sono stati preceduti dagli eubatteri.
[72] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022
[73] Robert M. Hazen, John M. Ferry. Mineral Evolution: Mineralogy in the Fourth Dimension. Elements 6 (1): 9-12, 2010
[74] Robert M. Hazen, John M. Ferry. Mineral Evolution: Mineralogy in the Fourth Dimension. Elements 6 (1): 9-12, 2010
[75] Olivia Judson, op. cit. 18 Nov 2022