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26 Agosto, 2023

Gli psicodelici e le nostre idee su noi stessi

Gli psicodelici avrebbero una notevole capacità di contravvenire le nostre idee su noi stessi. Sarebbe per questo che potrebbero essere utilizzati a fini terapeutici?

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XI • Numero 44 • Dicembre 2022

 

La ricerca di esperienze trasformative o curative

Come battuta iniziale di quest’argomentazione, esprimo una mia convinzione circa la specie umana. Anche se gli organismi compresi in questa classificazione tassonomica non costituiscono effettivamente un’entità statica, la nostra famiglia di ominidi può essere considerata, ad oggi, una specie culturale in cerca di sollievo metafisico ai propri disagi organismici e, per di più, intrappolata in una difesa delle proprie idee perfino quando esse ci causano angoscia. Nella mia esperienza, una tale tutela coatta del pensiero che ci controlla si palesa vividamente quando si partecipa in qualche attività volta al sollievo del disagio psichico e/o psicologico. Si potrebbe, in breve, affermare che noi umani proteggiamo le nostre visioni circa la nostra Identità, il nostro o il nostro Io perfino quando ci procurano un’invalidante paura esistenziale. Ma, proprio per l’aggiunta di questo intrappolamento, l’umanità cerca ogni forma di liberazione o guarigione, includendo farmacologie istituzionalizzate e, addirittura, sostanza droganti risalenti a svariati rituali culturali radicati in popolazioni indigene. Al riguardo, e per mo’ di esempio di quest’inclinazione, nel 1954 Aldo Huxley nel suo saggio The Doors of Perception,1 in cui raccontava, come frutto della sua collaborazione con lo psicologo Humphrey Osmond, la sua ricerca di liberazione spirituale attraverso dell’utilizzo della mescalina, auspicava uno sforzo tecnologico e culturale significativo riguardo la ricerca di psichedelici utili alla crescita spirituale della collettività.

Dopo una pausa di mezzo secolo, i ricercatori stanno nuovamente studiando i possibili benefici terapeutici della psilocibina2 (contenuta in funghi dalle caratteristiche psicoattive) così come quelli dell’LSD. Stando a quanto riferito da Philip Gerrans3 e da Chris Letheby,4 nel loro saggio Model Hallucinations,5 le droghe psichedeliche stanno tornando in auge, affermando, inoltre, che oggi ci sarebbe documentazione crescente che suggerirebbe che le esperienze psichedeliche possano essere effettivamente trasformative, particolarmente per persone che soffrono di ansia, depressione e dipendenza persistenti e invalidanti.6 “È semplicemente senza precedenti in psichiatria che una singola dose di un medicinale produca questo tipo di risultati marcati e duraturi,” avrebbe detto a Scientific American Stephen Ross, il direttore clinico del NYU Langone Center of Excellence on Addiction nel 2016.

Alla ricerca di un’euristica circa gli effetti terapeutici degli psicodelici

Un tale entusiasmo dovrebbe però riscontrare una verifica istituzionale per riuscire ad ottenere un’approvazione che accrediti, come vuole la convenzione dell’establishment, un utilizzo terapeutico delle sostanze psicodeliche. Analizzare lo stato dell’arte di un tale iter non costituisce obiettivo di quest’argomentazione interessata piuttosto al ragionamento euristico che sosterrebbe l’asserzione circa gli effetti terapeutici benefici delle sostanze in questione in persone affette da disturbi quali ansia e depressione. Infatti, questa relazione non è altro che una divulgazione di un approccio che non segue un chiaro percorso ma che si affida all’intuito e allo stato temporaneo delle circostanze al fine di generare conoscenza non nota al momento della sua elaborazione. In breve, si tratta di un tentativo di fare euristica circa i possibili effetti terapeutici degli psicodelici.

Premesso che, stando ai termini delle consuetudini che regolano il settore di competenze, non c’è una risposta univoca alla domanda riguardo a cosa servono queste sostanze droganti – oppure farmaci qualora si sia aperti al senso greco del termine e le due espressioni del concetto possano essere utilizzate in modo intercambiabile. Un’ipotesi di lavoro per iniziare a descrivere il ragionamento che risponda a tale domanda sarebbe quella riportata da Jules Evans che sostiene che ad oggi, stando a quanto appreso in materia, gli psichedelici indurrebbero, in modo affidabile, uno stato alterato di coscienza noto come dissoluzione dell’ego o anche rottura del senso di .7 A parere di questo ricercatore del Centre for the History of the Emotions alla Queen Mary University di London, il termine rottura del senso di sarebbe stato già utilizzato ben prima che gli strumenti delle neuroscienze contemporanee diventassero disponibili per descrivere sensazioni di auto-trascendenza, vale a dire sensazioni in cui la nostra mente o il nostro cosiddetto sembrerebbero entrare in contatto, più direttamente e intensamente, con il mondo, producendo un profondo senso di connessione e sconfinatezza, come la definisce lo stesso Evans.8

Evidentemente enunciare che gli psicodelici indurrebbero ad una dissoluzione del senso di Sé per spiegare il loro utilizzo terapeutico nel trattamento dell’ansia e della depressione ci colloca, semplicemente, all’inizio di un percorso di riflessione, sperimentazione e documentazione. Sicuramente la correlazione segnalata da Evans tra psicodelici e dissoluzione del senso di Sé costituisce una traccia per il nostro ragionamento in quanto essa ci induce a pensare che una tale esperienza di rottura del senso della propria identità sia una condizione per accedere ad una liberazione o guarigione dei pazienti con disturbi di ansia e depressione.

Per iniziare ad esplorare l’ipotesi di Evans sugli psicodelici come induttori di una rottura del senso di Sé possiamo chiedere agli studiosi Gerrans e Letheby in che modo queste sostanze droganti e la loro indotta sensazione di contatto diretto e intenso con il mondo aiuterebbero le persone con disturbi psichiatrici di lungo termine. A parer loro, nessuno saprebbe bene come funziona la terapia psichedelica, aggiungendo che alcuni professionisti dell’establishment della medicina indicano che manca una miglior conoscenza del cervello.9 Stando a loro, però, questa sarebbe soltanto una mezza verità perché, in realtà, le istituzioni del biopotere saprebbero molto sulla neurochimica degli psichedelici.10 Nella loro descrizione, come divulgato perfino nella cultura popolare gestita dalle piattaforme dell’informazione online, questi farmaci si legherebbero a un tipo specifico di recettore della serotonina nel cervello, il recettore 5-HT2A, che provocherebbe una complessa cascata di segnali elettrochimici. Ciò che non si capirebbe davvero, però, sarebbe la relazione più complessa tra il cervello, il cosiddetto e il suo mondo. Per Gerrans e Letheby, la domanda epistemologica rilevante riguardo la questione di questo legame tra cervello, Sé e mondo sarebbe quella di chiedersi da dove venga o emerga l’esperienza soggettiva di essere una persona e come tale soggettività, quasi di carattere metafisico, sia collegata alla materia organica di cui siamo fatti.11

A parere loro questa domanda circa l’origine dell’esperienza soggettiva del senso di Sé ci condurrebbe verso un’ultima frontiera ambivalente in quanto essa è sia metafisica che medica. Nella loro prospettiva la questione che dovrebbe essere delucidata sarebbe proprio quella dell’idea del Sé. In merito, si potrebbe riferire che le interpretazioni percorrono un’asse che va da alcuni che pensano che il Sé sia un’entità o un fenomeno reale, implementato nei processi neurali, la cui natura ci verrebbe gradualmente rivelata ad altri che affermano che la scienza cognitiva confermerebbe le argomentazioni dei filosofi orientali e occidentali secondo cui il Sé non esista. Arrivare a questa sovrapposizione di frontiere tra metafisica e medicina e affrontare la questione, secondo Gerrans e Letheby, potrebbe essere un’opportunità per meglio comprendere le terapie psicodeliche e le loro eventuali applicazioni.12

 

Alla ricerca di un’euristica circa l’idea di un Sé del soggetto

Al riguardo, come per ogni terapia e, almeno, fino alla fine del secolo scorso, ci vorrebbe se non altro un’euristica in materia oppure un’epistemologia del soggetto al quale la terapia verrebbe applicata. Di fatto, solo ad un tale livello di articolazione avrebbe senso introdurre l’idea di un Sé del soggetto. La presunta natura di un , come ci ricorda Carolyn Dicey Jennings, è verosimilmente discussa dai tempi in cui noi umani ci siamo messi a riflettere sulla nostra esistenza.13 Effettivamente, anche le recenti teorie neuroscientifiche dell’individualità discenderebbero, in modo riconoscibile, da venerabili ed antichissime posizioni filosofiche. Ad esempio, René Descartes sosteneva che il fosse un’anima immateriale le cui vicissitudini incontriamo come pensieri e sensazioni. Pensava che l’esistenza di questo duraturo fosse l’unica certezza fornita dalla nostra esperienza, altrimenti inaffidabile, come ci riepiloga opportunamente la studiosa Abeba Birhane nella sua disanima critica del pensiero di Descartes.14 

Pochi degli studiosi chiamati neuroscienziati crederebbero ancora in un’anima immateriale. Eppure, come giustamente indicano Gerrans e Letheby,15 molti seguirebbero ancora Descartes nell’affermare che l’esperienza cosciente implica la consapevolezza di una cosa pensante, vale a dire del . In ogni caso, ci sarebbe un consenso emergente sul fatto che tale autocoscienza sia, in realtà, una forma di consapevolezza corporea, prodotta, almeno in parte, dall’interocezione, ovverosia la nostra capacità di monitorare e rilevare i processi autonomi e viscerali o, per meglio dire, la percezione della condizione fisiologica del corpo, la rappresentazione cosciente dello stato interno nel contesto delle attività in corso e l’avvio di un’azione motivata per regolare omeostaticamente lo stato corporeo interno. Ad esempio, la sensazione di una frequenza cardiaca elevata potrebbe stare a fornire alla consapevolezza corporea informazioni sul fatto che si troverebbe in una situazione pericolosa o difficile, come suggerisce anche Manos Tsakiris basandosi sulle sue ricerche sui meccanismi neurali e cognitivi della consapevolezza di sé e della cognizione sociale.16

Stando a Gerrans e Letheby,17 David Hume non sarebbe stato d’accordo con Descartes. Infatti, questi studiosi sostengono che quando Hume avrebbe seguito da vicino la propria soggettività, avrebbe affermato di trovare non un affidabile ma un semplice flusso di esperienze. Al riguardo, Hume avrebbe detto che esperendo tale flusso di momenti esperienziali deduciamo, erroneamente, l’esistenza di un’entità sottostante. Per Gerrans e Letheby, la versione moderna di questo punto di vista sarebbe che abbiamo esperienze percettive, cognitive, sensoriali e, certamente, corporee, ma questo è tutto. Ci sarebbe, a parer loro, una tentazione, quasi irresistibile, di attribuire tutto questo a un sottostante. Quest’interpretazione sostanzialista, tuttavia, sarebbe un errore cartesiano, secondo Hume.18

Alcuni studiosi contemporanei di filosofia, come Thomas Metzinger,19 sostengono versioni di questo paradigma del Non Sé, facendo riferimento anche a connessioni con tradizioni non occidentali, come il concetto di anatta o non-sé nel buddismo Theravada, vale a dire ortodosso. I teorici dell’identità narrativa si riferiscono al adottando un’interpretazione simile, come sarebbe il caso del filosofo Gaben Strawson.20 Essi sostengono che l’errore sia pensare che, poiché usiamo un Io per raccontare una storia sull’esperienza, ci debba essere un Io effettivo, reale, distinto e sottostante la narrativa che usiamo per interpretare e comunicare il flusso dell’esperienza.

Stando a Gerrans e Letheby,21 oggi, tra studiosi e credenti dell’Io sottostante si possono annoverare cosiddetti neuro-buddisti, neuro-cartesiani e neuro-umani che riempierebbero gli schermi dei loro congressi di PowerPoint con immagini di scansioni fMRI22 presumibilmente congeniali alla loro teoria. Condizioni cognitive ritenute anormali, patologiche o meno, servirebbero come una fonte cruciale di prove in questi dibattiti perché, stando alla teoresi del sottostante o del vero Io, tali condizioni offrirebbero la possibilità di guardare al quando non starebbe funzionando correttamente. I dati che, presumibilmente, avallerebbero il loro paradigma arrivano ma il consenso rimane sfuggente. In una siffatta situazione di mancanza di consenso che sostenga l’idea del Sé sottostante, tuttavia, a parere di Gerrans e Letheby23 la neuroscienza emergente, vincolata allo studio e alla sperimentazione delle sostanze psichedeliche, potrebbe aiutare a risolvere quest’impasse relativa al concetto del sottostante o del vero Io. Nella loro opinione, gli studiosi della questione sarebbero, per la prima volta, in grado di osservare il senso di Sé disintegrarsi e reintegrarsi, in modo affidabile, ripetuto e sicuro, nello scanner di neuroimaging.24

Per poter comprendere adeguatamente le implicazioni di tale ricerca sull’utilizzo delle sostanze psicodeliche a fini terapeutici, ricerca che, stando alla teoresi che la guida, dovrebbe illustrare un modello di comprensione sperimentale circa l’idea della disintegrazione dell’ipotetico come condizione per l’accesso alla liberazione o guarigione dall’ansia e dalla depressione, si rende necessario, a parere di Gerrans e Lethrby,25 introdurre due idee fondamentali nel paradigma della neuroscienza cognitiva. La prima sarebbe la nozione di legame cognitivo. Tale legame cognitivo si riferisce all’integrazione di parti rappresentazionali in insiemi rappresentativi effettuata da parte del cervello. Per fare un esempio che chiarisca il concetto si potrebbe immaginare che uno si trovi in mezzo alla strada con un autobus che ci viene contro. In una tale circostanza, il colore, la forma e la posizione dell’autobus verrebbero, secondo l’euristica in materia, registrati in diverse aree della corteccia visiva. Stando al modello euristico di riferimento si potrebbe dire che per il nostro bene, il nostro cervello ha bisogno di legare le parti giuste (cioè rappresentazionali) negli insiemi giusti (rappresentativi) e non, diciamo, di combinare la forma e la posizione dell’autobus con la velocità di un ciclista sul marciapiede. Fortunatamente, secondo l’euristica disponibile, il più delle volte il nostro cervello riesce a farlo bene, ancorché studi sperimentali e patologie dimostrino che possa sbagliare. Ma la questione di come lo faccia, cioè il cosiddetto problema vincolante rimane irrisolta.

Una possibile soluzione alla questione del problema vincolante, come segnalano Gerrans e Letheby26 facendo riferimento a Karl Friston,27 verrebbe dalla teoria dell’elaborazione predittiva della cognizione, il secondo insieme di principi che si dovrebbe introdurre, seguendo il loro ragionamento, per comprendere la correlazione tra dissoluzione del senso di Sé e liberazione dall’ansia e dalla depressione attraverso l’utilizzo terapeutico degli psicodelici. I dettagli della teoria sarebbero ancora molto dibattuti, soprattutto tra i suoi stessi sostenitori. Tuttavia, a grandi linee, essa interpreta il cervello come una macchina predittiva che modella la struttura causale del mondo per anticipare l’inizio di un procedimento o input futuro. In una tale interpretazione, eventuali discrepanze tra un’aspettativa (predittiva) e un elemento necessario a provocare l’avviamento di un procedimento prenderebbero la forma di segnale di errore che richiederebbe una risposta dall’organismo, aggiornando il modello interno o agendo per ridurre il segnale di errore e, di conseguenza, l’avviamento del procedimento dinanzi all’imprevisto. Per farci un’idea di quello che si intende riferire, si pensi al processo di apprendimento a parcheggiare un’auto in un punto ristretto. Esso comporta una complicata serie di aggiustamenti poiché il cervello registra discrepanze tra l’esito previsto e quello effettivo delle sue istruzioni. Se si riuscisse a vedere che si è entrati nel parcheggio con un angolo troppo acuto, ci si potrebbe rendere conto che lo sterzo è più sensibile di quanto si pensasse e quindi si ruoterebbe meno la ruota la prossima volta. Ciò che si intende segnalare in modo breve è che noi umani siamo impegnati a costruire modelli predittivi così accurati del nostro mondo che i segnali di errore sarebbero volti a ridurre le discrepanze al minimo, quasi al punto di eliminarle.

Il concetto di modello nella codifica predittiva come parte dell’accreditamento euristico degli psicodelici nel trattamento dell’ansia e della depressione

Riepilogando l’argomentazione finora sviluppata cercando di stabilire un’euristica28 riguardo l’utilizzo terapeutico degli psicodelici, si è detto che l’esplorazione, piuttosto che la dimostrazione, dell’ipotesi di una correlazione tra liberazione da stati di ansia e depressione e l’utilizzo degli psicodelici comportava l’esplorazione del concetto della dissoluzione del senso di Sé e che questa esplorazione comportava la delucidazione delle nozioni di legame cognitivo e della teoria dell’elaborazione predittiva della cognizione che a sua volta ci porta ora all’analisi del concetto di modello.

Il concetto di modello, infatti, svolgerebbe molto lavoro esplicativo nella codifica predittiva. Per modelli, gli studiosi dei processi cognitivi intendono rappresentazioni mentali che organizzerebbero le informazioni e consentirebbero al cervello di estrarre segnali significativi dal “rumore”, vale a dire dagli stimoli irrilevanti e trascurabili che si accalcano nelle circostanze. Un classico esempio sarebbe il modo in cui ascoltiamo il parlato o la musica. Il segnale che raggiunge le orecchie sarebbe solitamente sfocato e incompleto. Al riguardo, un tecnico del suono che osserva sul display di un computer i dati uditivi che colpiscono i nostri timpani vedrebbe un pasticcio che potrebbe richiedere mesi di elaborazione del segnale per essere decodificato. Tuttavia, il nostro cervello può utilizzare la sua conoscenza precedente per produrre rappresentazioni coerenti di parole, frasi e melodie. Possiamo sentire i nostri amici in una stanza affollata perché siamo in grado di filtrare e ripulire il segnale, perché abbiamo un lessico di spiegazioni pronto per anticipare i flussi di dati con cui ci troviamo di fronte. Ciò che alla fine sperimentiamo, quindi, è che il modello che abbiamo imparato sia la soluzione migliore per le informazioni a disposizione, che prevede e spiega meglio le nostre percezioni prima che ci siano completamente consce. Questo processo di utilizzo del modello per codificare informazioni in arrivo sarebbe ciò che nella teoresi in disanima viene chiamata codifica predittiva.

Una sorprendente conseguenza della codifica predittiva ingaggiata a produrre rappresentazioni coerenti sarebbe che la percezione diventa poco più di una sorta di allucinazione controllata,29 come la definirebbe il professore di neuroscienze cognitive e computazionali Anil K. Seth.30 Da questa prospettiva di interpretazione delle rappresentazioni coerenti come allucinazioni controllate emerge un paradigma di costruzione soggettiva della realtà che propone che, noi umani, non sperimentiamo direttamente il mondo esterno bensì attraverso la migliore ipotesi della nostra mente su cosa stia succedendo là fuori. Ma, cosa significherebbe questo nell’ambito degli antichi dibattiti filosofici sulla realtà oggettiva? Potremmo anche chiederci se l’idea stessa di una realtà oggettiva abbia più un senso. I problemi qui sono profondi e complessi, ma sarebbe sufficiente dire che il framework di codifica predittiva si basa sull’idea che esista una sorta di mondo là fuori di cui il nostro cervello avrebbe bisogno per trovare un modo di tracciare la certezza delle sue ipotesi. In una tale interpretazione sarebbe proprio avvicinandoci alla struttura di tale realtà (anche se non riusciamo a comprenderne la sua verità o la sua natura) oppure indovinandola che i nostri cervelli predittivi ci salvano dall’essere investiti, come nell’esempio dell’autobus.

Seguendo questo paradigma della costruzione della realtà adattiva e della percezione dell’Io come allucinazione controllata o come artificio per codifica predittiva, Gerrans e Letheby31 ipotizzano che a causa delle regolarità statistiche dell’ambiente nell’arco del tempo, i modelli percettivi predittivamente più efficaci risulterebbero essere quelli che creerebbero un mondo e lo popolerebbero di oggetti (o modelli conoscitivi) con particolari proprietà, concrete e astratte, da essere percepiti e pensati. Sarebbe così che, stando al modello in questione, il nostro cervello risolverebbe il problema del legame cognitivo. Rincorrendo il ragionamento della teoria, l’esperienza passata ci insegnerebbe che sarebbe più probabile che alcune combinazioni di caratteristiche si verifichino insieme ad altre e questa coerenza prevista sarebbe aumentata attribuendo queste caratteristiche allo stesso modello [rappresentazione] o oggetto quando si ripresenta nella nostra percezione. Di conseguenza, il motivo per cui effettivamente vediamo un autobus che si muove verso di noi, anziché un miscuglio di forme e colori sconnessi, sarebbe che il cervello utilizzerebbe un modello per assegnare tali fluttuazioni visive a cose durevoli all’esterno della propria soggettività e per predire la natura dell’esperienza come risultato.

L’aspetto funzionale importante, in relazione ad una possibile euristica sulla correlazione tra psicodelici e liberazione da stati di ansia e depressione, che comporterebbe questa codifica predittiva, stando a Gerrans e Letheby,32 sarebbe che perfino il nostro senso del Sé non sarebbe altro che uno di questi modelli rozzi e pronti elaborati dalla codifica predittiva. In altre parole, il Sé potrebbe essere considerato come una sorta di meta-filtro per i segnali che riceve dal funzionamento di tutto il nostro organismo. In tal senso, i nostri incontri con il mondo, reale, immaginato o rievocato che esso sia, ci farebbero sentire accaldati, freddi, felici, tristi, ansiosi o calmi, con ogni gradazione e combinazione di esperienze intermedie. Così, ogni volta che la mente incontrerebbe un tale flusso di sentimenti e percezioni, lo attribuirebbe, irresistibilmente, a qualche entità sottostante che spiegherebbe quello che sta succedendo. Proprio come il gioco di colori e forme ci farebbe vedere un autobus sbandare verso di noi per strada, quando la felicità lascerebbe il posto alla tristezza, la mente dedurrebbe che “qualcuno” (Io) deve aver subito una perdita. Il risultato di questo processo predittivo sarebbe un modello di entità unitaria che ci permetterebbe di agire, pensare e interagire, soprattutto con altre persone, in modo coerente ed efficace. L’automodellazione sarebbe, semplicemente, una strategia di ottimizzazione che ci consentirebbe di unire alcune proprietà del mondo in modo che siano più facili da afferrare. Sforzandosi, però, di massimizzare il successo predittivo, la mente soccomberebbe, irresistibilmente, alla tentazione sostanzialista.33

Come si può desumere, questo modello del Sé e pure dell’Io, sarebbe complesso e multistrato. Da quanto gli studiosi avrebbero documentato finora, sembra essere più simile a una gerarchia di modelli, in cui ogni livello si occuperebbe di diversi aspetti del funzionamento dell’organismo. I livelli inferiori trascinerebbero e manterrebbero l’integrità dei confini corporei e regolerebbero l’omeostasi e gli incontri senso-motori con il mondo. Le sensazioni che ne deriverebbero successivamente verrebbero integrate con la cognizione di livello superiore che genererebbe il senso di essere me per episodi di pensiero, coinvolgendo processi come la memoria, l’inferenza e l’immaginazione.34 Infine, ai livelli più alti si potrebbe usare l’Io narrativo per esprimere il fatto che l’esperienza sia integrata e legata insieme attraverso questa gerarchia e attraverso il tempo.35 Ad esempio, nei momenti che precedono una presentazione importante, il nostro cuore potrebbe battere forte o potremmo sentirci agitati. Questo creerebbe una consapevolezza viscerale della situazione: il pericolo sarebbe imminente! A sua volta, questa sensazione evocherebbe pensieri che collegherebbero l’episodio attuale a quelli passati e perfino quelli futuri vissuti dalla stessa entità spingendoci a dire qualcosa come – farei meglio a non balbettare come l’ultima volta; è davvero importante conquistare questo auditorium; sarò mai veramente bravo in questo?

Riguardo al modello gerarchico, sostengono Gerrans e Letheby,36 ci sarebbe considerevole documentazione di ricerca sui modelli di attività cerebrale che corrisponderebbero al modello gerarchico del Sé proposto dalla teoresi del Sé come meta-filtro. Tali correlati neurali, la cui esistenza significherebbe che esiste una relazione reciproca tra l’attività cerebrale e l’esperienza soggettiva della coscienza, sarebbero implementati in alcuni circuiti cerebrali, in particolare nella rete di salienza37 e nella rete in modalità predefinita.38 Dalla prospettiva di questo paradigma, la rete di salienza ci permetterebbe di sentire la rilevanza degli stati corporei innescati dagli incontri con il mondo o realtà esterna. In questo senso, come una delle premesse di quest’interpretazione, gli organismi sarebbero costantemente bombardati da informazioni ma solo una parte delle quali risulterebbe, in definitiva, rilevante per i loro obiettivi e interessi. La rete di salienza sarebbe allora ciò che ci permetterebbe di discernere ciò che conta e che avrebbe significato nel suo contesto. Nel frattempo, la modalità predefinita di rete o Default mode network funzionerebbe alla base di episodi di pensiero autobiografico come la memoria, l’immaginazione, la pianificazione e il processo decisionale. Per semplificare un po’ le cose, possiamo dire che la rete in modalità predefinita sia spesso collegata al cosiddetto narrativo, mentre la rete di salienza sarebbe associata a un sé più minimale e incarnato ai suoi stati affettivi.39

 I costrutti dei correlati neurali nell’euristica circa gli effetti terapeutici dei psicodelici

A questo punto del ragionamento, ci dovremmo domandare come i costrutti dei correlati neurali, della rete di salienza e del default mode network, spiegherebbero gli eventuali effetti terapeutici degli psicodelici all’interno del paradigma di Gerrans e Letheby circa la codifica predittiva che modellerebbe la struttura soggettiva del mondo nelle nostre coscienze. In questo senso, come segnalato durante quest’analisi, il modello del si riferirebbe ad un insieme integrato di previsioni, molte di queste previsioni, costruite nel corso di una vita di esperienza possono tuttavia renderci profondamente stressati ed infelici. Una persona con un’esperienza di ansia sociale si aspetterebbe e sperimenterebbe che il mondo sia ostile perché si sentirebbe vulnerabile. L’auto-modello di che produrrebbe questi sentimenti di ansietà amplificherebbe le sue previsioni di avversità riguardo il suo mondo sociale. Allo stesso modo, le persone con depressione anticiperebbero e ricorderebbero il fallimento e l’infelicità e lo attribuirebbero alla propria inadeguatezza. Il loro modello di Sé renderebbe difficile l’accesso alle esperienze positive e spesso si autoalimenterebbe in una spirale negativa discendente, parafrasando le parole di Marc Lewis dal suo libro The Biology of Desire.40 Infatti, poiché i nostri cervelli cercherebbero, incessantemente, di prevedere cosa accadrà e di ridurre la probabilità di errore nella loro codifica predittiva, non sorprende che le nostre aspettative su noi stessi tendano ad autoavverarsi.

Tuttavia, a questo punto dell’argomentazione inizia ad emergere con chiarezza uno dei postulati centrali a favore dell’utilizzo delle sostanze psicodeliche nel trattamento dell’ansia e della depressione. Tale postulato sarebbe quello della dissoluzione del senso di Sé e la riprogettazione di un nuovo modello di Sé. Questo paradigma dell’utilizzo degli psicodelici a fini terapeutici comprende l’assunto che teoricamente dovremmo essere in grado di riprogettare i meccanismi del nostro modello di Sé e, così, cambiare il modo in cui organizziamo e interpretiamo la nostra esperienza. Il problema starebbe nel fatto che l’automodello del Sé funziona in un modo abbastanza simile alle lenti dei nostri occhi. Vediamo con loro e attraverso di loro ma sarebbe quasi impossibile vedere le lenti stesse per apprezzare davvero come influiscono sui segnali che ci raggiungono. In questo senso, si osserva in generale che la mente ci presenta il prodotto finito sotto forma di immagini, non i processi di modellazione stessi. Nella teoresi di Gerrans e Letheby, lo stesso vale per il : ci sentiamo funzionare come entità unificate non quali modelli gerarchici complicati e precari che tracciano e predicono le proprie risposte organismiche a ciò che sta accadendo.

Questa identificazione con il modello gerarchico stesso sarebbe, stando a studiosi come Gerrans e Letheby e i loro ricercatori di riferimento, una grande parte del motivo per cui sia così difficile liberarsi dei disturbi psichiatrici come la depressione o l’ansia. Per la persona che ne soffre si renderebbe quasi impossibile accedere a un modo alternativo di stare nel mondo. Potrebbe sapere, intellettualmente, che certe esperienze sono accessibili, possibili e benefiche, ma non può, davvero, identificarsi con quegli eventuali alternativi. Si tratterebbe di situazioni in cui il nostro modello di Sé sarebbe stato rigidamente costruito per analizzare il mondo in modo negativo e per farci sentire di conseguenza. Inoltre, le persone colpite da questo specifico tipo di codifica predittiva spesso avrebbero il giustificato sospetto che impegnarsi con forme di terapia volte a cambiare la percezione di sé cambierebbe, in qualche modo fondamentale, la loro esperienza riguardo chi sono. In altre parole, si potrebbe dire che in tali circostanze difendiamo il nostro abituale anche quando ci causa angoscia.

Considerando la teoresi di Gerrans e Letheby, sarebbe proprio nel contesto di cercare di accedere a un modo alternativo di stare nel mondo che entrano in gioco gli psichedelici. In tali circostanze, questi farmaci metterebbero un freno al lavoro dei modelli di Sé disadattivi e fastidiosi, in quanto influenzerebbero i meccanismi neurali da cui scaturirebbe la consapevolezza di Sé. Si tratterebbe di una sorta di dissoluzione del Sé [dell’Io] e a questo punto sembra che accadano due cose. La prima sarebbe che l’integrità del modello del Sé si degraderebbe. La seconda sarebbe che non diamo più per scontato che la nostra esperienza del mondo debba essere interpretata secondo quel modello.

La degradazione del modello dell’integrità del Sé significherebbe, semplicemente, che il Sé scompare come filtro sul mondo. Diventerebbe “slegato” come l’unità attraverso la quale comprendiamo la nostra esperienza. Questo spiegherebbe, invero, i resoconti degli utenti di sostanze psichedeliche sulla perdita dell’individualità e i loro modelli di intenso assorbimento nel mondo. Lo scrittore Aldous Huxley avrebbe notoriamente descritto la sua esperienza di assumere mescalina in questo modo in The Doors of Perception (1954): “Non stavo guardando una composizione floreale insolita. Stavo vedendo ciò che Adamo aveva visto la mattina della sua creazione: il miracolo, momento dopo momento, della nuda esistenza”.

Il secondo effetto cioè il fatto che non diamo più per scontato che la nostra esperienza del mondo debba essere interpretata secondo quel modello sarebbe più sottile. Riguarderebbe il modo in cui gli psichedelici possono illuminarci sui processi alla base della nostra soggettività. Quando il rigido costrutto dall’esperienza passata smette di funzionare e viene successivamente ricostruito, il ruolo del modello del Sé sembra diventare visibile al suo possessore. Una tale esperienza offrirebbe un sollievo psicologico, ma soprattutto attirerebbe l’attenzione sulla differenza tra un mondo visto con e senza il Sé. Per una persona ansiosa o depressa, gli psichedelici consentirebbero di apprezzare il ruolo intermedio e rappresentativo del modello di Sé. La dissoluzione dell’ego sotto gli effetti degli psicodelici offrirebbe una vivida prova esperienziale, non solo che le cose possono essere diverse, ma che il Sé che condiziona l’esperienza sarebbe solo una cosa euristica, non immutabile e persistente.

Il Sé stesso non esiste come entità persistente ma è una strategia cognitiva fondamentale

A questo punto dell’argomentazione dovremmo chiederci allora cosa rivelino, effettivamente, gli psichedelici sulle controversie filosofiche e neuroscientifiche sull’idea del . Da quanto esposto si potrebbe concludere che il costrutto del Sé non farebbe riferimento ad un mero postulato narrativo, come avrebbero suggerito alcuni teorici. A quanto sembra svolgerebbe un ruolo cruciale nell’elaborazione percettiva ed emotiva. Ma questo non significherebbe, come altri hanno affermato, che il modello del abbia gli attributi giusti per qualificarsi come un cartesiano. Potrebbe svolgere alcuni dei giusti tipi di funzioni, ma non sarebbe il giusto tipo di entità. Il modello del Sé svolge una funzione di legame essenziale nell’elaborazione cognitiva, ma il Sé come realtà persistente e sostanziale non esiste. Effettivamente sarebbe meglio vederlo come una strategia cognitiva fondamentale che si sarebbe sviluppata nel corso del tempo evolutivo. Un tale sconcertante postulato, che farebbe della nostra soggettività una mera strategia cognitiva, nel suo effetto di ridimensionamento delle nostre idee su noi stessi costituisce un’occasione per ricordare sorridenti le parole di James Kingsland in Siddhartha’s Brain: “È difficile sfuggire alla conclusione che ci siamo evoluti in una scimmia che prende le cose sul personale“.41

Che l’idea del corrisponda ad un modello e non ad una cosa, non significherebbe che sia completamente fluido e arbitrario. Tutto il contrario. Tale modello si costruirebbe dalla nascita nel corso di molti decenni. In particolare, ai livelli inferiori, i processi cognitivi che il modello del legherebbe tra loro, vale a dire percezione, interocezione e meccanismi regolatori di base, non sarebbero particolarmente flessibili. Questa sarebbe la ragione del perché gli ambienti caotici durante gli anni dello sviluppo della propria soggettività risultino così dannosi. Non solo sarebbero stressanti in modi ovvi, ma nei suoi anni formativi, in tali circostanze, la cosiddetta mente non avrebbe modelli stabili di esperienza su cui modellare un . Di conseguenza, il cambiamento nella codifica predittiva circa l’esperienza soggettiva nel mondo può essere ancora molto difficile. Immaginiamo di provare a sentire la nostra lingua madre come esente da significato. Sarebbe quasi impossibile. Meglio imparare un’altra lingua, con tutto lo sforzo che comporta, piuttosto che cercare di “dimenticare” temporaneamente tutto ciò che costituisce la nostra soggettività. Così accadrebbe anche con il . Infine, stando a Gerrans e Letherby,42 gli psichedelici permetterebbero di ascoltare, brevemente, il linguaggio personale della soggettività di ciascuno di noi come suono privo di significato. Perciò, a parer loro, è plausibile sostenere che con l’utilizzo degli psicodelici si potrebbe imparare un’altra lingua dell’individualità e la riuscita dipenderebbe dalla volontà personale.


______________Note _________________

1 Aldous Huxley, Le porte della percezione – Paradiso e inferno, traduzione di Lidia Sautto, collana Piccola Biblioteca, Arnoldo Mondadori Editore, 2005

2 La psilocibina è una triptammina psichedelica presente in alcuni funghi allucinogeni del genere Psilocybe, Panaeolus, Inocybe, e Stropharia. Quando ingerita viene rapidamente defosforilata a psilocina che esercita effetti sul sistema nervoso centrale inducendo esperienze psichedeliche, enteogene ed effetti lievemente euforizzanti. Ha struttura chimica simile ai neurotrasmettitori endogeni serotonina e dimetiltriptammina, appartenendo alla classe delle triptammine. La psilocibina mostra interessanti proprietà terapeutiche per un ampio insieme di patologie, specie per il trattamento del dolore cronico e delle patologie psichiatriche. Tuttavia, a causa della illegalità diffusa della sostanza e dei conseguenti vincoli burocratici, le sperimentazioni fino ad ora hanno riguardato soprattutto piccoli gruppi di pazienti non permettendo perciò di trarre dati definitivi sulla reale portata terapeutica. Jeffrey A. Lieberman, Back to the Future – The Therapeutic Potential of Psychedelic Drugs, in New England Journal of Medicine, vol. 384, n. 15, Massachusetts Medical Society, pp. 1460–1461, 15 aprile 2021

3 Philip Gerrans. Professore di filosofia all’Università di Adelaide in Australia e associato del Swiss Center for Affective Sciences a Ginevra. Autore del libro The Measure of Madness: Philosophy of Mind, Cognitive Neuroscience, and Delusional Thought. Bradford Books, 2014. La proposta di Gerrans è quella di considerare euristicamente le illusioni come modelli narrativi che accolgono e accomodano esperienze anomale.

4 Chirs Letheby. Ricercatore presso l’Università di Adelaide e collaboratore nel progetto Philosophical Perspectives on Psychedelic Psychiatry. Autore del libro Philosophy of Psychedelics. Oxford University Press, 2021

5 Philip Gerrans & Chris Letheby. Model hallucinations. In AEON, August 2017

6 Ibidem

7 Jules Evans. Dissolving the ego. 26 June 2017

8 Ibidem

9 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017

10 Ibidem

11 Ibidem

12 Ibidem

13 Carolyn Dicey Jennings. I attend, therefore I am. In AEON, 10 July 2017

14 Abeba Birhane. Descartes was wrong: ‘a person is a person through other persons. In AEON, 7 April 2017

15 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017

16 Manos Tsakiris. The brain-heart dialogue shows racism hijacks perception. In AEON 14 April 2017

17 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017

18 Ibidem

19 Thomas Metzinger. Are you sleepwalking now? In AEON, 22 January 2018

20 Galen Strawson. I am not a story. In AEON, 3 September 2015

21 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017

22 La Risonanza Magnetica Funzionale (o fMRI) è un tipo particolare di risonanza magnetica che viene utilizzata, in ambito neuroradiologico, per rilevare quali aree cerebrali si attivano durante l’esecuzione di un determinato compito (come parlare, leggere, pensare o muovere una mano).

23 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017

24 Ibidem

25 Ibidem

26 Ibidem

27 Karl Friston. The mathematics of mind-time. In AEON, 18 May 2017

28 Euristica: metodo di ricerca e documentazione per l’accreditamento del sapere strumentale convenzionato dall’establishment attraverso le sue istituzioni.

29 Per un approfondimento sul paradigma della percezione come allucinazione controllata si veda Rinaldo Octavio Vargas. Il caso contro l’idea dell’apprensione di una realtà oggettiva. La visione evoluzionista della realtà come costrutto adattivo. BIO Educational Papers. Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità. Anno X. Numero 37. Marzo 2021 p. 5 / Rinaldo Octavio Vargas. Il caso contro l’idea dell’apprensione di una realtà oggettiva. Parte II – Materia organica che prevede facendosi rotta nell’incertezza. BIO Educational Papers. Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità. Anno X. Numero 38. Giugno 2021 p. 4 / Rinaldo Octavio Vargas. Il caso contro l’idea dell’apprensione di una realtà oggettiva III. Strutture e attività sensoriali. La fitness batte la verità. BIO Educational Papers. Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità. Anno X. Numero 39. Settembre 2021 p. 4. [questi articoli saranno pubblicati in seguito qui su Generiamo Salute]

30 Anil K. Seth. The real problem. In AEON 2 November 2016

31 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017

32 Ibidem

33 Sostanzialismo. Termine usato, talvolta polemicamente, per indicare ogni dottrina filosofica che postuli una realtà necessaria e assoluta, sussistente al di sotto delle mutevoli apparenze.

34 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017

35 Ibidem

36 Ibidem

37 La rete della salienza consisterebbe in un network che coinvolge la corteccia dorsale cingolata anteriore e insulare anteriore, e controlla sia gli eventi esterni che il flusso di coscienza interno, focalizzando l’attenzione sull’informazione più utile per rivolvere un determinato compito.

38 Default mode network (DMN) è il termine per designare una delle reti cerebrali più importanti e studiate degli ultimi anni. Il costrutto di “Default Mode” venne introdotto per la prima volta da Raichle e collaboratori (2001), che, sulla base di diversi risultati ottenuti con la PET (Tomografia a Emissione di Positroni), notarono una serie di aree cerebrali che si attivavano insieme quando il soggetto si trovava in resting state (RS, cioè a riposo, con l’attenzione non focalizzata sul mondo esterno), per poi ridurre la loro attività quando il soggetto doveva svolgere dei compiti cognitivi. Questo significa che quando il nostro cervello non è focalizzato sul mondo esterno o impegnato in task cognitivi, si innesca una modalità di pensiero “di default”, appunto, legata ad attività di introspezione, ricordi di memorie autobiografiche e pensieri rivolti al futuro (Andrews-Hanna, 2012). Quindi il DMN viene definito in letteratura come una rete neurale estremamente ampia, formata da varie regioni cerebrali distinte tra loro, che sincronizzano la loro attività quando il soggetto si trova vigile, con gli occhi chiusi e non attivamente coinvolto in compiti specifici. L’attivazione sincronizzata del DMN è il corrispettivo neurofisiologico del pensiero umano contraddistinto dalla focalizzazione su di sé

39 Ibidem

40 Marc Lewis. The Biology of Desire: Why Addiction is Not a disease. PublicAffairs, 2016

41 James Kingsland. Siddhartha’s Brain: Unlocking the Ancient Science of Enlightenment. Mariner Books, 2017

42 Philip Gerrans & Chris Letheby, op. cit. August 2017