BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno X • Numero 39 • Settembre 2021
Il caso contro l’idea dell’apprensione di una realtà oggettiva: cognizione e mente non sarebbero conduttori verso la verità di una realtà oggettiva
Come manifestato già a marzo del 2021, in occasione del suo Anno X, lo spazio editoriale del trimestrale BIO è impegnato in uno sforzo per far conoscere quella corrente di pensiero che ritiene che noi umani siamo organismi in cui ciò che chiamiamo cognizione e mente non sarebbero conduttori verso la verità di una realtà oggettiva. La ragione di tale scelta, è quella di offrire all’opinione pubblica intuizioni per svelare i retropalchi ideologici della psicopolitica e della biopolitica, declinate nel controllo sanitario della popolazione, controllo bell’incastonato come gestione della pandemia del Covid19. La posizione di Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità, ribadiamo, è quella di fare il caso contro l’idea dell’apprensione di una realtà oggettiva, opzione che vuole evidenziare la fragilità dello scientismo assolutista, nuova veste ideologica del bio-potere e riferimento dottrinale della bio-politica di gestione della pandemia e, ovviamente, della sua narrazione.
In precedenza abbiamo argomentato che, contrariamente a ciò che crediamo, noi umani non abbiamo un accesso veritiero alla realtà oggettiva in cui abitiamo poiché l’evoluzione ha favorito una modalità percettiva che ci nasconde la complessa realtà, guidandoci, naturalmente, verso azioni utili per mantenerci in vita e poterci riprodurre.1 La specie, abbiamo discusso, esistendo nell’incertezza ma con un cervello strutturatosi e sviluppatosi in interazione con le pressioni ambientali, non potrebbe che muoversi ingaggiata nella predizione a favore della sua fitness, cioè del suo successo riproduttivo e di sopravvivenza, anziché impegnata nella ricerca di una verità assoluta.2 Stando a questa teoresi noi non vediamo la realtà tale e quale sia ma l’interpretiamo secondo i modelli adattativi della fitness evolutiva. Una tale prospettiva costituisce un’aperta contestazione all’assolutismo scientifico e ci avverte sulla relatività delle conclusioni o verità cosiddette scientifiche. In questa terza argomentazione cercheremo di fare il caso ancora, con la ricerca nell’ambito del cognitivismo e delle neuroscienze, contro l’idea dell’apprensione di una realtà oggettiva. Nello specifico, cercheremo di documentare la natura adattativa delle nostre percezioni interpretandole alla luce del teorema che suggerisce che nell’evoluzione umana la strategia della fitness sconfigga ogni ipotetica strategia centrata sulla verità della realtà oggettiva.
La maggior parte di noi presume che, in modo naturale, vediamo la realtà così come essa è. Dunque, se vediamo una mela è perché c’è, davvero, una mela. Perfino molti scienziati presumono che dovremmo ringraziare l’evoluzione per questo. Per loro le percezioni accurate della realtà migliorerano la nostra fitness3 biologica e sociale, ragione per cui la selezione naturale le favorisce, soprattutto in specie come l’Homo sapiens con cervelli più grandi. A volte si spingono, addirittura, a sostenere che le nostre percezioni recupererebbero, o ricostruirebbero, le forme e i colori degli oggetti reali. Molti non si preoccupano nemmeno di menzionarlo perché risulterebbe troppo ovvio. Il compito nostro oggi, però, è quello di interrogarci se abbiamo ragione quando vincoliamo la fitness, cioè i nostri comportamenti volti ai fini utili della nostra sopravvivenza e riproduzione, ad una percezione, secondo noi, accurata della complessa realtà fuori di noi in quanto osservatori. Di fatto, in quest’argomentazione ci interrogheremo se, davvero, la selezione naturale4 favorisca le percezioni “veritiere”, cioè percezioni che riproducono, puntualmente, la realtà. Ci spingeremo ad accettare pure l’ipotesi che considera che, in effetti, non ci siamo evoluti per vedere veramente, in quanto le nostre percezioni dello spazio, del tempo e degli oggetti non rivelano la realtà così come essa è. Una volta per tutte, ci permetteremo di interrogarci, utilizzando la teoria dell’evoluzione, se sia proprio vero, come immaginiamo comunemente, che una pesca esista quando nessuno la guarda.
Da una prospettiva convenzionale, l’idea che una pesca non sia lì quando nessuno l’osserva sarebbe, certamente, antiscientifica. Uno si potrebbe domandare, dopotutto, quale osservazione potrebbe dirci cosa succede, concretamente, quando nessuno osserva. E si potrebbe, logicamente, rispondere che nessuna osservazione potrebbe verificarlo, spiegando che si tratterebbe di una contraddizione in termini. In breve, verrebbe bollata come una proposta improvabile, che non può essere testata da un esperimento e che, quindi, non potrebbe che essere retorica metafisica e non una domanda che la scienza possa affrontare. Questa replica, però, riconsiderata dalla prospettiva della teoria dell’evoluzione, stando a Donald Hofman, manca di un punto di logica e di un dato di fatto. La questione di logica sarebbe che se non possiamo testare l’affermazione che una pesca non esiste quando nessuno la guarda, allora non possiamo testare l’affermazione opposta e ampiamente diffusa, cioè che essa esista. Entrambe le affermazioni postulano ciò che accadrebbe quando nessuno osserva. Ma, se una non è scientifica, non lo è nemmeno l’altra. Né lo sarebbero le affermazioni che postulano che il sole esista quando nessuno guarda, che il big bang sia avvenuto più di tredici miliardi di anni fa ed altre affermazioni simili fatte di routine nella scienza.
La questione controversa, nel parere di Hofman, sarebbe che, di fatto, sì possa testare un’affermazione su ciò che accade quando nessuno osserva. Hoffmann perfino ci perdona per non rendercene conto. Infatti, lui ci segnala che addirittura il brillante fisico Wolfgang Pauli se lo è perso e ha paragonato tali affermazioni all'”antica e assurda domanda su quanti angeli fossero in grado di sedere sulla testa di un ago”.5 Nella interpretazione di Hoffman, il fisico John Stewart Bell, nel 1954, dimostrò a Pauli che si sbagliava, segnalandogli che ci sono esperimenti che, effettivamente, possono testare tali affermazioni, come per esempio, l’affermazione che un elettrone non ha spin quando nessuno l’osserva.6 Gli esperimenti di Bell sono stati eseguiti, in molte varianti, con risultati coerenti. Il teorema di Bell avrebbe, però, secondo Hoffmann, strappato tali affermazioni dal regno degli angeli e le avrebbe collocate al ritmo della scienza, anche se, in effetti, il paradosso di Einstein-Podolsky non è che un esperimento mentale che avrebbe dimostrato la previsione dell’entanglement quantistico.
Percezioni veritiere o adattative sottoposte al giudizio della moderna teoria dell’evoluzione biologica
Se affermazioni come quella del teorema di Bell, che postula che un elettrone non ha spin quando nessuno l’osserva, sono di competenza della scienza, possiamo allora chiederci se possono essere testate, ad esempio, nell’ambito dell’evoluzione, chiedendoci, ai fini precisi della nostra argomentazione, se la selezione naturale favorisca le percezioni veritiere. Di fatto, la nostra dissertazione intende rispondere, affermativamente, alla domanda se possiamo aspettarci che la teoria dell’evoluzione emetta un verdetto sulla natura adattativa anziché veritiera della percezione umana, nonostante che, al riguardo, alcuni studiosi sostengano che non possa farlo, ribadendo la loro convinzione che le percezioni, in quanto veritiere per natura, debbano migliorare la fitness. Verità e fitness, affermano, non sono strategie rivali ma, piuttosto, la stessa strategia vista da prospettive diverse. Questo pensiero convenzionale è documentato dagli studi di John Wilkins e Paul Edmond Griffiths nelle loro ricerche sulle credenze nei domini dei fatti, compresi i fatti della scienza, dei valori e della religione.7 Pertanto, dal punto di vista del pensiero convenzionale l’evoluzione non può emettere un verdetto imparziale perché essa sarebbe già schierata a favore delle percezioni veritiere.
Questo ragionamento convenzionale, stando a Hoffman, fallisce perché dimentica un semplice punto sulla fitness. Secondo le interpretazioni standard dell’evoluzione, sebbene i payoffs o vantaggi della fitness dipendano dallo stato effettivo delle risorse dell’ambiente, essi dipendono pure dall’organismo, dal suo stato, dalla sua azione e dalla sua competizione. Le feci, ad esempio, offrono grandi payoffs per le mosche affamate ma non per gli umani affamati. Una sorgente idrotermale, che erutta idrogeno solforato a 80°C in acqua a pochi chilometri di profondità, offre ottimi payoffs per il verme di Pompei Alvinella pompejana ma una morte orribile per tutti tranne che per una manciata di estremofili. La distinzione tra uno stato dell’ambiente (diciamo, un mucchio di feci) e i payoffs di idoneità evolutiva o fitness che offrirebbe ad un organismo (diciamo, una mosca o un uomo) sarebbe essenziale nell’evoluzione. Secondo le stesse interpretazioni standard dell’evoluzione, i vantaggi evolutivi possono variare ampiamente mentre il vero stato dell’ambiente rimarrebbe fisso. Allora, se questa premessa è corretta, ne consegue, in effetti, che vedere la verità e vedere la fitness sono due strategie distinte di percezione, non una strategia vista sotto luci diverse. Le due strategie possono competere. Una può dominare e l’altra estinguersi. Pertanto, chiedersi se la selezione naturale favorisca la percezione sintonizzata sulla verità o sulla fitness risulta una domanda centrale anziché un errore concettuale.
Alcuni sostengono che la teoria dell’evoluzione, nella sua versione della moderna teoria dell’evoluzione biologica, non possa affrontare questa domanda, perché la risposta potrebbe confutare la teoria stessa. Nella loro visione convenzionale, l’evoluzione biologica presuppone che ci siano oggetti fisici nello spazio e nel tempo, come DNA, RNA, cromosomi, ribosomi, proteine, organismi e risorse. Pertanto, non potrebbe, senza confutare sé stessa, concludere che la selezione naturale conduca le percezioni veritiere all’estinzione. Ma, da un punto di vista più radicalmente darwiniano, ci ricorda Hoffman, il linguaggio stesso dello spazio, del tempo e degli oggetti fisici sarebbe il linguaggio sbagliato per descrivere la realtà oggettiva in termini di selezione naturale ed evoluzione. Le nostre osservazioni scientifiche di oggetti fisici nello spaziotempo, come DNA, RNA e proteine, non sono descrizioni prettamente veritiere della realtà oggettiva, anche se queste osservazioni utilizzano tecnologie avanzate, come diffrattometri a raggi X e microscopi elettronici. La teoria dell’evoluzione confuterebbe sé stessa solo se screditasse il proprio assunto chiave, vale a dire che la chiave dell’evoluzione è l’adattamento adattativo utile alla fitness, non la percezione né l’adattamento alla verità.
L’evoluzione per selezione naturale, come la descrisse lo stesso Darwin, presuppone, effettivamente, l’esistenza di “esseri organici”. Ma il riassunto della sua teoria suggerisce che il vero lavoro sia svolto da un algoritmo astratto: variazione, ereditarietà e selezione. “… se si verificano variazioni utili a qualche essere organico, certamente gli individui così caratterizzati avranno le migliori possibilità di essere preservati nella lotta per la vita e, dal forte principio dell’ereditarietà, tenderanno a produrre una prole similmente caratterizzata. Questo principio di conservazione l’ho chiamato, per brevità, Selezione Naturale”.8 Questo algoritmo di variazione, ereditarietà e selezione si applica agli esseri organici ma, come ha riconosciuto lo stesso Darwin, si applica anche in modo più ampio, addirittura ad entità più astratte, come le lingue. “Le lingue, come gli esseri organici, possono essere classificate in gruppi e sottogruppi. Si possono classificare o naturalmente, secondo la discendenza, o artificialmente, secondo altri caratteri. Le lingue e i dialetti dominanti, cioè più utilizzati per convenienze pratiche delle popolazioni, si diffondono ampiamente e portano alla graduale estinzione di altre lingue meno utilizzate”.9
Il filosofo e biologo Thomas Huxley, alla fine del ‘800, si rese conto che l’algoritmo di Darwin si applicava perfino al successo delle teorie scientifiche. “La lotta per l’esistenza vale tanto nel mondo intellettuale quanto nel mondo fisico. Una teoria è una specie di pensiero e il suo diritto di esistere è coestensivo con il suo potere di resistere all’estinzione da parte dalle teorie rivali”. Richard Dawkins ha proposto che l’algoritmo di Darwin si applichi anche ai “memi”, cioè quelle unità di trasmissione culturale come “melodie, idee, slogan, mode di vestiti, modo di fare pentole o di costruire archi”. I memi possono passare da persona a persona e possono essere modificati nel processo. “Nel blu dipinto di blu” è stato, originariamente, un meme nelle menti di Franco Migliacci e Domenico Modugno, ma ha proliferato, con variazioni, nella mente di Al Martino, Dalida, Barry White, Al Bano, Mina, David Bowie, Paul McCartney, Ximena Sariñana, Yukihiro Takahashi ed altri, gareggiando con successo contro molte canzoni per il limitato tempo e interesse, e per la limitata attenzione e memoria delle menti umane. Molte canzoni che non abbiamo mai sentito erano un meme nella mente di qualcuno ma hanno avuto meno successo nella replica.
L’algoritmo di Darwin è stato applicato a campi come l’economia, la psicologia e l’antropologia. Il fisico Lee Smolin, studioso che si è chiesto se l’universo evolva, lo ha applicato alla più grande scala, la cosmologia, proponendo che ogni buco nero sia un nuovo universo e che un universo con maggiori probabilità di produrre buchi neri avrebbe maggiori probabilità di produrre più universi.10 Il nostro universo avrebbe le proprietà che possiede, come forze nucleari, gravitazionali ed elettromagnetiche, perché condurrebbero alla creazione di buchi neri e, attraverso di essi, di nuovi universi. Dalla prospettiva di quest’ipotesi, universi molto diversi dal nostro avrebbero meno probabilità di produrre buchi neri e, quindi, meno probabilità di riprodursi. L’intuizione che l’algoritmo di Darwin si applichi non solo all’evoluzione degli esseri organici ma, ugualmente, con alcune modifiche, alla varietà di altri domini, viene chiamata darwinismo universale.11 Dawkins ha coniato il termine quando ha sostenuto che l’algoritmo di Darwin governa l’evoluzione della vita non solo sulla terra ma in qualsiasi parte dell’universo. Il darwinismo universale, a differenza della moderna teoria dell’evoluzione biologica non presuppone l’esistenza di oggetti fisici nello spazio e nel tempo. È un algoritmo astratto, senza alcun impegno nei confronti dei substrati che lo implementano.
Percezioni veritiere o adattative sottoposte al giudizio dell’algoritmo darwiniano universale
Può allora il darwinismo universale, senza rischio di confutare sé stesso, rispondere alla nostra domanda chiave se la selezione naturale favorisca le percezioni veritiere? L’inquietante potere del darwinismo universale è stato paragonato dal filosofo Daniel Dennett a un acido universale. Al riguardo, Dennett sostiene che non si può negare che l’idea di Darwin sia un solvente universale, capace di tagliare fino al cuore di tutto ciò che si pensa di vedere. La domanda sarebbe, in questo caso, cosa lasci fuori? Stando a lui, una volta che l’algoritmo acido universale di Darwin, con il suo andamento di variazione, ereditarietà e selezione, passa attraverso tutto, ci rimangono versioni più forti e più solide delle nostre idee più importanti. Alcuni dettagli tradizionali periscono e alcuni di questi sono perdite da rimpiangere ma, per il resto, una buona liberazione. Quello che rimane, per Dennett, è più che sufficiente per costruire successivamente.12
Ebbene, seguendo la suggestione di Dennett13 e il ragionamento di Hoffman14, possiamo cercare di applicare l’acido di Darwin alla fede della nostra cultura moderna oggettivista nella percezione veritiera. Stando a loro, scopriremo che questa credenza muore: la selezione naturale porta questa cara credenza convenzionale nelle percezioni veritiere alla rapida estinzione. Scopriremo, pure, che il linguaggio stesso delle nostre percezioni in termini di spazio, tempo e oggetti fisici sia, semplicemente e paradossalmente, il linguaggio sbagliato per descrivere la realtà oggettiva. Per Hoffman e Dennett, l’acido di Darwin dissolve perfino l’affermazione che la realtà oggettiva consista nello spazio-tempo e negli oggetti, come il DNA, i cromosomi e gli organismi perché, stando a loro, ciò che rimane è l’astratto darwinismo universale, che possiamo impiegare anche dopo aver gettato a mare lo spazio-tempo e gli oggetti.
Le ricerche del biologo Roger D. Farley e dell’aracnologo Gary Allan Polis sul comportamento e sull’ecologia dell’accoppiamento dello scorpione15 può risultare utili a fare il punto sull’algoritmo universale darwiniano e sulla nostra indagine per documentare che le percezioni favorite dalla selezione naturale siano, difatti, le percezioni adattative anziché le veritiere. Il cameratismo non è il punto forte dello scorpione Paruroctonus mesaensis. Quando uno scorpione rileva vibrazioni che tradiscono il movimento di un rivale, ruota e afferra l’intruso con i suoi due artigli. L’intruso schiocca immediatamente la coda cercando di pungere l’aggressore, dopodiché ogni scorpione afferra la coda dell’altro con un artiglio e una parte del suo corpo con l’altro. Segue un wrestling senza esclusione di colpi fino a quando uno dei due scorpioni non infila il suo pungiglione attraverso una fessura nell’armatura dell’altro e fa un’iniezione letale. Quindi, riduce in cena la sua conquista, liquefacendolo con i succhi digestivi e bevendo il ristoro. Questa cattura del giorno non è un pasto raro. Il cannibalismo fornisce il 10 % del menu di uno scorpione e la femmina concorderebbe, il sesso dopo è fantastico. Nella battaglia per compagni e territori, alcuni animali, tra cui leoni, scimpanzé, umani e scorpioni, uccidono loro rivali. Ma, come ci ricordano il biologo zoologo J. Maynard Smith e il chimico fisico ed esperto in genetica delle popolazioni George Robert Price con la loro ricerca sulla logica del conflitto animale, altri combattono con rituali o restrizioni: i combattenti obbediscono alle regole di ingaggio.16 Alcuni serpenti, per esempio, mettono le zanne nel fodero e lottano. I cervi muli (Odocoileus hemionus) combattono da corna a corna, spesso intensamente, e non prendono colpi a buon mercato in altre parti del corpo. Questi comportamenti ci portano a chiederci perché i belligeranti obbediscano alle regole in tali contese? Perché questa lampante eccezione alla “natura grezza di zanne e artigli” e al “tutto è lecito in amore e in guerra”?
Stando a Maynard Smith e Price, troviamo una risposta a questo rituale di restrizione nel combattimento in una simulazione seguendo la teoria dei giochi.17 In questa simulazione delle decisioni comportamentali, i giocatori competono per le risorse, utilizzando una tra due strategie: di falco o di colomba. Secondo i ruoli assegnati in questo esperimento chi recita la strategia falco intensifica sempre un conflitto. Il giocatore che recita la strategia colomba si tira indietro se il suo avversario intensifica il conflitto. Tutti i giocatori, falchi e colombe, sarebbero ugualmente forti. Stando a questa teoria delle decisioni comportamentali se i payoffs (o guadagni) per la vincita di una gara fossero di venti punti ma il costo dell’infortunio fosse la perdita di ottanta punti, cosa accadrebbe? Considerando la teoria, se due falchi competono, nessuno dei due si tirerebbe indietro finché uno non si faccia male e l’altro vinca. Avendo la stessa forza, ogni falco vincerebbe la metà delle volte e otterrebbe venti punti per ogni vittoria. Ma ogni falco si farebbe male la metà delle volte e perderebbe ottanta punti per ogni ferita. Pertanto, quando i falchi combattono tra loro, perderebbero, effettivamente, in media, trenta punti. La loro fitness ne soffre. Se due colombe competono, ciascuna vincerebbe la metà del tempo e otterrebbe venti punti. Nessuna colomba è ferita. Perciò, ogni colomba vincerebbe, in media, dieci punti. La loro fitness migliora. Se, invece, un falco incontrasse una colomba, allora il falco vincerebbe anche se nessuno si farebbe male. Il falco otterrebbe venti punti per una vittoria. La colomba non otterrebbe nulla. La fitness migliorerebbe per il falco, ma non per la colomba.
Dati questi vantaggi o payoffs, quale strategia comportamentale sarebbe allora favorita dalla selezione naturale? La risposta, stando a Maynard Smith e Price, dipende dalla proporzione tra falchi e colombe. Supponiamo che tutti siano falco. Quindi tutti perdono, in media, 30 punti in ogni competizione, il che significherebbe, stando alla teoria della selezione naturale, una via veloce verso l’estinzione. Ma, supponiamo che tutti siano una colomba, quindi, tutti guadagnerebbero, in media, dieci punti in ogni competizione, vale a dire una corsia preferenziale per una maggiore fitness. Ma in questo calcolo, a parere di Maynard Smith e Price, ci sarebbe una trappola. Se tutti fossero colombe e si presentasse un falco, allora quel falco avrebbe un periodo di massimo splendore, accumulando venti punti ogni volta che gareggerebbe con una colomba. Questo sarebbe più del doppio dei punti raccolti dalle colombe, che otterrebbero, in media, dieci punti nelle gare con altre colombe e nessun punto nelle gare con i falchi. Più punti di vantaggi di fitness, stando alla teoria del gioco, significano più prole. Quindi, questo falco genererebbe altri falchi. Ma il divertimento del falco dovrà fermarsi da qualche parte perché, come abbiamo visto, se tutti i giocatori fossero falchi, ognuno perderebbe in media trenta punti e il gioco imploderebbe in estinzione.
Possiamo spingerci nel gioco e chiederci quando dovrebbe smettere di crescere la popolazione dei falchi per mantenere il suo vantaggio di fitness. Stando alla teoria dei giochi, simulando le strategie di comportamenti dei falchi, la loro crescita dovrebbe smettere di ampliarsi quando i falchi saranno un quarto dei giocatori. Se più di un quarto fossero falchi, allora i falchi guadagnerebbero meno punti rispetto alle colombe. Diversamente, se meno di un quarto dei giocatori fossero falchi, i falchi guadagnerebbero più punti delle colombe. Quindi, a lungo termine, un quarto dei giocatori finirebbe per essere falchi per via dei payoffs di fitness. In questo esempio, una vittoria ottiene venti punti e un infortunio ne perde ottanta. Se si cambiano questi numeri in quaranta e sessanta, ora i payoffs o vantaggi di fitness attesi sarebbero che un falco perderebbe 10 punti se incontrasse un altro falco ma guadagnerebbe 40 punti se incontrasse una colomba. In tali circostanze, i due terzi dei giocatori finirebbero per essere falchi. Ciò che si intende segnalare con questi giochi è che la fitness dipenderebbe dai payoffs e da quanti giocatori adottano ciascuna strategia. Se tutti fossero colomba, allora sarebbe più adatto come strategia essere un falco. Se tutti fossero falchi, allora sarebbe più adatto essere una colomba. Pertanto, la forza della selezione naturale, stando a Maynard Smith e Price, dipende dalla frequenza di ciascuna strategia. Questo è un punto chiave di questo ragionamento. La fitness non sarebbe lo specchio del mondo. Invece, la fitness dipende, in modi complessi, dallo stato dell’ambiente, dallo stato degli organismi e dalle frequenze delle strategie.
A questo proposito, stando a Hoffman, quando due strategie competono, la dinamica dell’evoluzione può, in effetti, essere complessa. Seguendo Maynard Smith e Price, abbiamo visto che le strategie dei falchi e delle colombe possono convivere ma ci possono essere altre possibilità. Una strategia potrebbe portare all’estinzione dell’altra. Si tratterebbe della strategia del dominio. Oppure ogni strategia potrebbe avere qualche possibilità di portare l’altra all’estinzione. Si tratterebbe di ciò che Hoffman, prendendo il termine dalla fisica, chiama la bistabilità.18 O invece potrebbe succedere che entrambe le strategie potrebbero essere sempre ugualmente idonee, per cui ci troveremmo in una situazione di neutralità. Tuttavia, quando tre strategie competono, la dinamica dell’evoluzione, secondo Hoffman, permetterebbe dei cicli, come nel classico gioco per bambini Sasso-Carta-Forbici.19 Quando quattro o più strategie competono, la dinamica dell’evoluzione potrebbe includere il caos, in cui una minuscola perturbazione apporterebbe cambiamenti imprevedibili lungo la strada, come propone il professore di biologia matematica Martin Andrea Nowak nella sua teoria delle dinamiche evolutive che esplora le equazioni della vita.20 Questo è anche noto come “l’effetto farfalla”: il battito delle ali di una farfalla qui (una piccola perturbazione) potrebbe scatenare un tornado da qualche altra parte (una conseguenza imprevedibile).
Questa varietà di strategie, esplorata con la teoria dei giochi evolutivi di Maynard Smith e Price, consente tante descrizioni astratte di svariati fenomeni e per questa ragione Hoffman si chiede se, proprio questa, possa fornire gli strumenti teorici idonei per dare una risposta alla domanda se, invero, la selezione naturale favorisca le percezioni veritiere. La risposta positiva, come suggerito lungo quest’argomentazione, confermerebbe che le strategie di comportamento siano guidate dai vantaggi o payoffs di fitness, utilizzando percezioni adattative anziché guidate da una ricerca della verità di una realtà oggettiva che adopererebbe presunte percezioni veritiere. Una tale conclusione rinforza, certamente, l’ipotesi di Hoffman che propone che l’evoluzione ci nasconda la verità dai nostri occhi.
Il Teorema di Hoffman circa le due strategie sensoriali: Fitness-Batte-Verità
A questo punto dell’argomentazione possiamo introdurre lo strumento teoretico chiave di Donald Hoffman per sostenere che le nostre percezioni, nell’arco dell’evoluzione, siano adattative, guidate dai vantaggi di fitness, anziché veritiere. Si tratta del teorema Fitness-Beats-Truth (FBT), vale a dire Fitness-Batte-Verità (FBV), escogitato da Hoffman e dai ricercatori Kyle D. Stephens, Chris Fields, e Manish Singh e che il fisico matematico Chetan Prakash21 avrebbe dimostrato. Per inquadrare meglio questo teorema22 si considerino due strategie sensoriali, ciascuna capace di N percezioni distinte in una realtà oggettiva che presenta N stati. Una è la strategia percettiva Verità che scorge la struttura della realtà oggettiva nel miglior modo possibile. L’altra è la strategia percettiva Fitness che non scorge nulla della realtà oggettiva ma è sintonizzata sui relativi payoff di fitness, vantaggi che dipendono sì dalla realtà oggettiva ma altresì dall’organismo, dal suo stato e dalla sua azione. In breve, secondo il Teorema Fitness Batte Verità, la strategia Fitness porterebbe la strategia Verità all’estinzione con almeno una probabilità di (N-3) / (N-1), stando ai modelli matematici di Prakash.
Per intuire cosa significa quest’astrazione possiamo, ad esempio, considerare un occhio con dieci fotorecettori23, ciascuno con due stati. Tenendo conto del teorema FBV e dei calcoli di Prakash, la probabilità che questo occhio veda la realtà sarebbe al massimo di due su mille. Per un occhio con venti fotorecettori, la possibilità si riduce a due su un milione. Qualora considerassimo un occhio con quaranta fotorecettori, allora la probabilità diminuirebbe a uno su dieci miliardi. Per un occhio con ottanta si rimpicciolirebbe a uno su cento sestilioni. L’occhio umano sarebbe provvisto di centotrenta milioni di fotorecettori, pertanto, a parere di Hoffman e Praksh, la possibilità che l’occhio umano veda la realtà sarebbe effettivamente zero. Supponiamo, addirittura, che ci sia una realtà oggettiva di qualche tipo. In una tale evenienza, il teorema FBV ci direbbe che la selezione naturale non ci modella per percepire la struttura di quella realtà. Ci modellerebbe, invece, per percepire i punti fitness e come ottenerli. Il Teorema FBT sarebbe stato testato e confermato in molte simulazioni come documentano anche le ricerche nell’ambito delle scienze cognitive di Justin T. Mark, Brian B. Marion e Donald D. Hoffman sulle percezioni e la selezione naturale, specialmente sull’impatto dell’utilità sull’evoluzione delle percezioni. Tali simulazioni rivelerebbero che la strategia Verità spesso si estingua anche se la strategia Fitness sia molto meno complessa.
Una simulazione, ideata da Hoffman e inquadrata nella teoria dei giochi, mostra il problema per la strategia Verità. Si consideri un mondo artificiale in cui abitino delle creature che chiameremo “Chicchi” e che avrebbero bisogno di una risorsa che noi chiameremo “Roba”. Considerando le regole del gioco, se un Chicco fosse esposto ad una situazione in cui ci fosse troppa o invece insufficiente Roba, allora il Chicco morirebbe ma nella messa in scena della simulazione con la giusta quantità di Roba, qualunque Chicco prospera e si riproduce. Diciamo che la risorsa Roba agisce sui Chicchi come l’ossigeno influisce su di noi umani: troppo poco o eccessivo e noi moriamo. Supponiamo, inoltre, che un Chicco abbia solo due modalità percettive: grigio, che ne darebbe meno punti di fitness per la sua sopravvivenza e riproduzione, e nero, che ne darebbe invece più punti. Un Chicco che attuasse la strategia percettiva comportamentale di Verità per procurarsi la sua Roba dovrebbe distinguere tutto ciò che può sulla vera struttura del suo ambiente, di conseguenza vedrebbe grigio quando ci sarebbe meno disponibilità di Roba e nero quando ce ne sarebbe di più. Un Chicco che attuasse la strategia Fitness dovrebbe individuare il più possibile sui punti fitness disponibile, per cui vedrebbe grigio quando la risorsa Roba gli darebbe meno punti e nero quando ne otterrebbe di più. Seguendo il ragionamento di Hoffman, se un Chicco addetto alla strategia Verità percepisse grigio, guidato dalla sua strategia di scoprire la vera struttura del reale, allora saprebbe che c’è meno quantità della risorsa o Roba che necessita. Ma non saprebbe nulla dei punti fitness disponibili. Se un Chicco preposto alla strategia Fitness vedesse grigio, saprebbe che sono disponibili meno punti fitness. Ma non saprebbe se c’è una piccola o grande quantità della risorsa o Roba che necessita perché non apprende la struttura del reale. Attuare guidati dalla strategia alla ricerca di verità nasconderebbe la fitness, attuare, invece, la strategia volta alla fitness nasconderebbe ciò che sia la verità.
Per rendere quest’astratta simulazione più concretamente pertinente a noi umani si pensi che i nostri sensi, ad esempio, percepiscono, direttamente, un elemento chimico con numero atomico 8 che fa parte degli elementi del gruppo 16 sulla tavola periodica, cioè l’ossigeno benché noi, di fatto, non abbiamo scoperto l’ossigeno fino al 1772 quando Lavoisier fece la prima analisi chimica dell’aria. Invece, i nostri sensi ci hanno costantemente segnalano la fitness anche quando non esisteva l’analisi chimica dell’aria. Sentiamo mal di testa se non c’è ossigeno sufficiente, vertigini se ce n’è di troppo. Allo stesso modo, i nostri sensi non percepiscono, direttamente, la struttura della luce con i suoi intervalli di radiazioni elettromagnetiche né la dinamica che la generano. Infatti, non abbiamo scoperto questa radiazione fino al 1801 e, comunque, i nostri sensi hanno sempre segnalato la fitness: sentiamo scottature se riceviamo troppe radiazioni ultraviolette.
Tornando alla simulazione di Hoffman per esaminare i possibili scenari della strategia Fitness, si potrebbe assumere che se uno dei Chicchi del suo mondo artificiale attuasse la strategia di percezione della Fitness per cercare la risorsa “Roba” di cui ha bisogno e scorgesse una macchia nera, allora saprebbe che è sicuro avvicinarsi perché nero significa più disponibilità della risorsa. Se intravedesse una macchia di grigio, allora saprebbe di starne alla larga. Ma i Chicchi che attuano la strategia percettiva della Verità avrebbero un problema. Se un Chicco che attua la strategia Verità vedesse una macchia nera non saprebbe se sia sicura o meno. E avrebbe lo stesso problema se vedesse una macchia di grigio. Di conseguenza, i Chicchi che attuano la strategia della Verità, a differenza della Fitness, devono rischiare la propria vita per cercare ciò di cui hanno bisogno. Seguendo questi modelli si può suggerire ironicamente che la verità non ci renderà liberi ma ci farà estinguere.
Se, secondo la simulazione, all’aumentare della quantità di risorsa (Roba) necessaria, il numero di punti fitness prima aumentasse e poi diminuisse si evincerebbe una curva a campana. Se, invece, il numero dei punti fitness aumentasse sempre, allora anche le percezioni sintonizzate sulla fitness sarebbero sintonizzate sulla verità, semplicemente perché le due sarebbero correlate. Conosciamo l’età di un albero vedendo i suoi anelli perché i due sono correlati: più anelli significano più anni. Ma se non fossero correlati, se in alcuni anni un albero aggiungesse anelli ma in altri anni li cancellasse, allora vedere gli anelli non ci direbbe l’età dell’albero.
Se i payoffs della fitness solo aumentassero o soltanto diminuissero, allora le percezioni sintonizzate sulla fitness sarebbero anche sintonizzate sulla verità. In tal caso, la selezione naturale accadrebbe per favorire le vere percezioni. Ma, quanto è probabile che questo accada? Per rispondere a questa domanda, Hoffman suggerisce che dovremmo contare il numero di funzioni di fitness che solo aumentano o solo diminuiscono. Poi si dovrebbe dividere per il numero di tutte le possibili funzioni di fitness. Se, per esempio, ci fossero sei valori di risorsa necessaria (Roba) e sei valori di payoffs di fitness, allora solo una funzione di fitness su cento consentirebbe alla strategia della Verità di evolversi. Se ci fossero dodici valori, seguendo i modelli matematici della simulazione, solo due su cento milioni consentirebbero alla Verità di evolversi. Nell’evoluzione, come nel calcio, si vince segnando più punti della concorrenza. La selezione naturale, in accordo con la regola, favorisce le percezioni che ci aiutano a segnare punti fitness. Se il numero di punti fitness si correlasse però con una struttura nel mondo come, ad esempio, la quantità di risorsa (Roba) necessaria, allora l’evoluzione accadrebbe per favorire la strategia Verità. Ma la possibilità di ciò sarebbe decisamente piccola per le percezioni semplici e infinitesime per quelle più complesse.
In questa simulazione, la Risorsa o Roba ha, naturalmente, una sua struttura, ad esempio, di quantità. Può, ugualmente, esserci meno o più quantità di Risorsa. Ma ci sono anche tante altre possibili strutture, come i quartieri, le distanze e perfino le simmetrie. Per ogni struttura ci si potrebbe chiedere se i punti fitness possano, per caso, essere correlati a quella struttura. E per ognuna, stando alle simulazioni di Hoffman, otterremmo la stessa risposta: la possibilità precipiterebbe a zero man mano che il mondo e la percezione diventano più complessi. In ogni caso, la Verità si estinguerebbe quando gareggerebbe con Fitness. Tuttavia, pensatori di statura hanno affermato il contrario. Ad esempio, David Marr24 sosteneva che la mosca, per la sua semplicità, non veda la verità ma che l’uomo, per la sua complessità, ne veda alcune.25 Pensava che i nostri cervelli più grandi consentissero “il graduale movimento verso il difficile compito di rappresentare aspetti progressivamente più oggettivi del mondo visivo”. Questo ragionamento, alquanto convenzionale, si adatta alla nostra intuizione comune ma è in conflitto con la logica dell’evoluzione, come ci rivela la simulazione matematica del Teorema Fitness Batte Verità che stiamo analizzando.
L’idea che i nostri cervelli stiano crescendo di dimensioni e, quindi, anche nella loro capacità di scorgere, prevalentemente, una verità oggettiva, è altresì in conflitto con un fatto della nostra evoluzione perché i nostri cervelli si stanno restringendo, come ci segnala lo studioso del pensiero magico degli adulti Bruce Hood e i ricercatori nell’ambito dello sviluppo cognitivo e dell’evoluzione, David C. Geary e Drew H. Bailey.26 Negli ultimi 20.000 anni, il nostro cervello si è ridotto del 10 %, da 1.500 centimetri cubi fino a 1.350, una perdita di volume di una pallina da tennis. Il nostro quoziente di encefalizzazione, o EQ, che confronta il nostro rapporto tra massa cerebrale e massa corporea con il rapporto medio per altri mammiferi, sarebbe precipitato in un batter d’occhio del tempo evolutivo. Considerando i reperti fossili, questo crollo sarebbe leggermente correlato al clima ma fortemente alla densità di popolazione e, quindi, possiamo presumere, alla complessità sociale. Ciò suggerisce una spiegazione inquietante: la rete di sicurezza della società allenta le pressioni selettive sui membri ed alcuni che non sopravvivrebbero da soli o in piccoli gruppi, possono sopravvivere con una rete sociale più ampia. Questa possibilità, se la possiamo esplorare con umorismo sarebbe, per noi, una speculazione. Ma il tuffo del EQ umano non lo sarebbe. Se continuasse a ritmo sostenuto, entro 30.000 anni manderebbe il nostro cervello indietro di mezzo milione di anni, alle dimensioni dell’Homo erectus. Con la rete di sicurezza della società che allenterebbe le pressioni selettive sui membri, i nostri cervelli già avrebbero preso la scala mobile in discesa.
Il teorema FBV va contro le radicate convinzioni di esperti e profani
Utilizzando anche le ricerche e i lavori di Hook, Geary e Bailey, Hoffman è convinto che l’idea darwiniana della selezione naturale racchiuda il teorema FBV, che a sua volta implica che il lessico delle nostre percezioni – inclusi spazio, tempo, forma, tonalità, saturazione, luminosità, consistenza, gusto, suono, odore e movimento – non possa descrivere la realtà come è quando nessuno la guarda. Stando a Hoffman, la questione non è, semplicemente, che questa o quella percezione sia sbagliata. Il punto è che nessuna delle nostre percezioni, essendo espresse in questo linguaggio, può essere giusta. Il teorema FBV, di fatto, va contro le forti intuizioni di esperti e di profani. In questo senso si può considerare che Dennett ha ragione: l’idea di Darwin attuerebbe come un “acido universale”, mangerebbe quasi ogni concetto tradizionale e lascerebbe dietro di sé una visione del mondo rivoluzionata, con la maggior parte dei vecchi punti di riferimento ancora riconoscibili ma trasformati in modi fondamentali.
La visione rivoluzionata dalla selezione naturale lascia dietro di sé una biologia evolutiva che è essa stessa trasformata. Ancora riconoscibili, dopo il bagno nell’acido di Darwin, rimangono i punti di riferimento del darwinismo universale: variazione, selezione ed ereditarietà. Ma dalla realtà oggettiva sono scomparsi gli oggetti fisici nello spazio-tempo. Compresi quelli centrali per la biologia: DNA, RNA, cromosomi, organismi e risorse. Una tale posizione, però, non comporta, meccanicamente, un solipsismo.27 Qualcosa è lì nella realtà oggettiva e noi umani ne sperimentiamo l’importanza per la nostra fitness in termini di DNA, RNA, cromosomi, organismi e risorse. Ciò che il teorema FBV ci suggerisce radicalmente è che, qualunque cosa sia, quasi sicuramente non sarebbe DNA, RNA, cromosomi, organismi o risorse. Il teorema ci spiega anche che ci siano buone ragioni per credere che le cose che percepiamo, come il DNA e l’RNA, non esistano indipendentemente dalle nostre menti. Il motivo per cui le cose che percepiamo non esistano indipendentemente dalle nostre menti sarebbe che le strutture dei payoff di fitness, che modellano ciò che percepiamo, differiscono, con alta probabilità, dalle eventuali strutture della realtà oggettiva. Di nuovo, questo non è un supporto per un solipsismo: effettivamente c’è una realtà oggettiva ma quella realtà sarebbe completamente diversa dalle nostre percezioni degli oggetti nello spazio e nel tempo.
Tale conclusione può sembrare assurda ma, sicuramente, a parere di Hoffman tale impressione è dovuta a un errore di logica e dovremmo solo individuarlo. Forse l’errore si nasconde nelle semplificazioni delle ipotesi dei giochi evolutivi. Ad esempio, tali giochi omettono mutazioni esplicite, assumono un’infinità di giocatori e stabiliscono che ogni giocatore abbia la stessa possibilità di competere con qualsiasi altro. Queste semplificazioni risultano, spesso, false. Gli organismi in natura subiscono mutazioni, hanno popolazioni limitate e interagiscono maggiormente con quelli vicini. La teoria dei giochi evolutivi,28 stando a Hoffman, ignora queste complessità e si concentra sugli effetti della selezione naturale. Prendere in considerazione queste complessità, riguardanti le mutazioni e i limiti delle popolazioni, sarebbe, precisamente, l’obiettivo di cui si avrebbe bisogno per verificare l’affermazione che la selezione naturale favorisca le percezioni veritiere anziché le adattative. Ma il risultato, stando al teorema FBV, è chiaro: non è così, la selezione naturale non favorisce le percezioni veritiere.
Un importante processo omesso dai giochi evolutivi è quello della deriva neutra, in cui una mutazione che non ha effetto sulla fitness si diffonde per caso attraverso una popolazione. Una tale mutazione può persino portare all’estinzione di altri alleli ma potrebbe, anche, mitigare gli effetti della selezione naturale così che una differenza di fitness che sarebbe decisiva nelle simulazioni della teoria dei giochi evolutivi non risulta decisiva in una popolazione reale, finita e con mutazioni. Se, ad esempio, una strategia Fitness avesse un vantaggio selettivo del 100% su una strategia percettiva di Verità, allora, in una simulazione di un gioco evolutivo con una popolazione infinita, la strategia Verità si estinguerebbe sempre e qualora competesse con una strategia di Fitness. Ma in un gioco con cento giocatori ad attuare la strategia di Verità, la possibilità che tale strategia si estingua sarebbe solo metà se una mutazione introducesse un giocatore con strategia di Fitness e questo, certamente, costituirebbe una differenza significativa. Hoffman reitera che sebbene questa differenza sia importante, in ogni caso, non sarebbe un vantaggio per coloro che sostengono che la selezione naturale favorisca la Verità. Tale considerazione, al suo parere, risulterebbe falsa, a prescindere dal fatto che le popolazioni siano finite o infinite e che le mutazioni siano esplicite o meno. Hoffman liquida la questione utilizzando una metafora abbastanza fulminea, vale a dire sostenendo che una popolazione limitata può rallentare l’annientamento della Verità da parte della selezione naturale ma questo sarebbe paragonabile alla situazione in cui far saltare un ponte può rallentare un carro armato nemico ma non potrà renderlo amico.
Riguardo la validità della teoria evolutiva dei giochi per contraddire il teorema che propone che le strategie percettive guidate dalla Fitness battano quelle che intenderebbero percepire la Verità oggettiva del mondo, il professore di biologia matematica, Martin Nowak, considera che se si vogliono modellare o simulare diverse probabilità di interazione tra giocatori, allora i giochi evolutivi de essere giocati su grafici. La teoria evolutiva dei giochi, di fatto, è più utilizzata in economia anziché in biologia. Si conosce, teoreticamente, che le reti di connessioni tra giocatori possono amplificare e diluire le pressioni della selezione naturale in modi complessi ma c’è molto da studiare in questo campo relativamente nuovo. Finora, stando a Hoffman e Nowak, la teoria evolutiva dei giochi non offre supporto per l’affermazione che la selezione naturale favorisca la Verità. La struttura di una rete può aiutare o ritardare le pressioni della selezione ma queste pressioni rimangono ostili alla Verità.
Justin Mark, studioso delle pressioni evolutive sulle percezioni veritiere, ha usato algoritmi relativi alla genetica, con mutazioni esplicite, per studiare la coevoluzione tra percezione e azione in popolazioni finite.29 Ha creato anche lui un mondo artificiale in cui un giocatore poteva cercarsi le risorse per ottenere punti di fitness. Poteva cercare risorse, mangiare risorse e perfino sbattersi contro i muri che delimitavano il suo mondo. Nella predisposizione dell’esperimento una serie di geni determinava le percezioni e le azioni del giocatore. La prima generazione di giocatori aveva dei geni scelti a caso, in modo che le loro azioni e percezioni fossero casuali, addirittura comicamente stupide. Alcuni colpivano ripetutamente un muro, o rimanevano in un posto, o cercavano ripetutamente di non mangiare. Ognuno era così ottuso che, alla fine della sua corsa di foraggiamento, aveva segnato pochi punti di fitness mettendo a rischio la propria sopravvivenza. Ma alcuni si mostrarono meno stupidi di altri. Questi furono scelti e “allevati” e i loro geni poi mutarono per formare una nuova generazione. Tale processo, in simulazione, è stato ripetuto per centinaia di generazioni. All’ultima generazione, tutti i giocatori andavano alla ricerca di cibo con efficienza e apparente intelligenza. In questa simulazione la domanda interessante era: quei giocatori, si sono evoluti per intravedere o percepire la verità? La risposta, stando a Mark, fu no. Anche quando percezione e azione co-evolvono per centinaia di generazioni, la strategia percettiva della Verità come guida del comportamento non sarebbe apparsa. I giocatori dell’ultima generazione, ad esempio, avrebbero percepito l’idoneità delle risorse ma non le loro vere quantità. Solo nella remota possibilità che i punti fitness seguissero le strutture del mondo potrebbe apparire anche la Verità come guida del comportamento.
Le simulazioni non costituiscono una prova ma suggeriscono che la strategia della percezione veritiera porta all’estinzione
Queste simulazioni, senz’altro, non costituiscono una prova certa ma suggeriscono, in ogni modo, che l’estinzione della Verità nelle simulazioni della teoria dei giochi evolutivi non possa essere attribuita a presupposti errati. Bensì, la Verità si estinguerebbe perché andrebbe a caccia della realtà anziché della Fitness, come un giocatore di scacchi che dà la caccia alle torri piuttosto che al re. Quale altro errore, nei presupposti, potrebbe spiegare la conclusione che la Verità si estingua? Hoffman, Singh e Prakash, suggeriscono che ci sia una nozione di percezione veritiera troppo forte. Al riguardo hanno proposto di considerare tre nozioni di percezione veritiera. La più forte è il “realismo onnisciente“, cioè vediamo tutta la realtà così com’è. La prossima consiste nel “realismo ingenuo“, cioè vediamo qualcosa, ma non tutto, della realtà così com’è. La più debole è il “realismo critico“, vale a dire che la struttura delle nostre percezioni conserva parte della struttura della realtà. Se il teorema FBV prendesse di mira il realismo onnisciente o ingenuo, allora potremmo davvero ignorare la sua conclusione. Di fatto, nessuno, salvo pazzi e solipsisti, rivendica l’onniscienza e pochi sposano il realismo ingenuo. Ma il teorema mira al realismo critico, che è la nozione più debole ma più ampiamente accettata di osservazione veritiera nella scienza della percezione e nella scienza più in generale. Di fatto, il teorema FBV non dà fuoco a un fantoccio.30
Si ammetta, però, per rigore di analisi, domandarsi se forse il teorema FBV non abbia fatto un’assunzione sbagliata sulla realtà oggettiva. Un’altra domanda che potrebbe aiutare a precisare il postulato del teorema FBV sarebbe quella di, assumendo che esso dimostra che perseguire la percezione veritiera della realtà porta all’estinzione, chiedersi di quale precisa realtà si parla. Invero, dovremmo domandarci come potrebbe il teorema FBV postulare, a priori, che cosa sia la realtà. Un errore su questo punto smonterebbe, senza rischio, il teorema. La risposta dei suoi sostenitori è seriamente sorprendente. Hoffman puntualizza che perché il teorema abbia valore, non può richiedere un modello specifico di realtà oggettiva ma deve, bensì, essere vero in generale. Per questo motivo, il Teorema FBV assume solo che la realtà, qualunque essa sia, abbia un insieme di stati. Stati di cosa, chiaramente, il teorema non li enuncia. Presuppone solo che gli stati, o sottoinsiemi di stati, possano avere delle probabilità. Ma non specifica particolari probabilità. Il teorema FBV afferma, però, che se la realtà al di fuori dell’osservatore ha una struttura oltre la probabilità, la selezione naturale modellerà la percezione per ignorarla. Effettivamente, il teorema non fa ipotesi sugli stati di realtà al di là dell’affermazione che possiamo discutere le loro probabilità. Quest’affermazione potrebbe sembrare falsa all’intuito convenzionale ma se, in effetti, lo fosse, allora una scienza della realtà sarebbe impossibile perché non ci sarebbe modo di mettere in relazione i risultati probabilistici degli esperimenti con le affermazioni probabilistiche sulla realtà. Probabilmente per questo si può affermare che una scienza della realtà non sia mai possibile. Vorremmo sperare diversamente ma il teorema FBV, da parte sua, presuppone, naturalmente, che una tale scienza sia possibile ma essa non può che essere una scienza probabilistica. In effetti, anche i profani hanno qualche volta letto o sentito dire che la scienza tratti di probabilità.
Forse il teorema FBV risulta irrilevante per l’evoluzione umana. Si tratta, infatti, di una teoria completamente descrittiva, per niente prescrittiva. Forse ciò che risulta necessario per comprendere l’evoluzione umana sarebbe una simulazione completa, mediante intelligenza artificiale, riguardante gli umani, insieme a una simulazione delle loro interazioni con tutti gli altri organismi e con la Terra stessa. Forse, senza una simulazione così completa, non possiamo, propriamente, affermare di sapere che non ci siamo evoluti per scorgere la realtà così com’è. Certo, le nostre interazioni con l’ambiente sono complesse, così complesse che la nostra evoluzione è caotica: una spinta infinitesimale al mondo ora può innescare una trasformazione tettonica in seguito. Ma, stando a suoi sostenitori, il teorema FBV può essere utilizzato ancora per capire l’evoluzione umana, per fare congetture sul futuro della specie e, altresì, per stimolare una riflessione volta a ridimensionare la tracotanza che ci caratterizza come organismi adattativi costumati da rigide metafisiche.
Un’analogia con la nostra ordinaria quotidianità potrebbe aiutarci a capire perché il teorema FBV sia ancora valido per comprendere l’evoluzione umana. Si consideri la complessità della lotteria. Milioni di biglietti vengono acquistati da migliaia di persone per centinaia di motivi diversi, utilizzando dozzine di trucchi diversi per scegliere un numero particolare: compleanno, anniversari, messaggi della fortuna. Ora supponiamo di voler pronosticare quante persone vinceranno alla prossima estrazione. Abbiamo bisogno di una simulazione completa di tutta questa complessità per ottenere una risposta? Affatto. Anzi, sarebbe una perdita di tempo. Ciò che è necessario, invece, sono alcuni principi di probabilità che si applicano a prescindere dalla miriade di dettagli. Lo stesso varrebbe per il teorema FBV. Ci permette di indovinare, in base a principi di probabilità, quante creature si evolveranno per vedere la realtà così com’è. L’intuizione chiave del teorema è semplice: la probabilità che i payoffs della fitness riflettano qualsiasi struttura nel mondo precipita a zero man mano che la complessità del mondo e delle percezioni aumentano. Gli effetti caotici impediscono una previsione precisa dello specifico sistema percettivo che prevarrebbe. Ma le leggi della probabilità imporrebbero, a parere di Hoffman, che la strategia Verità abbia meno possibilità del nostro biglietto della lotteria.
Se i modelli teoretici suggeriscono questa debolezza riguardante la nostra percezione della realtà ciò significa che le nostre percezioni ci mentano? Non proprio. Non è che, per l’appunto, i nostri sensi mentano, almeno non più di quanto lo faccia il desktop del nostro computer quando ritrae un’e-mail come un’icona rettangolare gialla. I nostri sensi, come l’interfaccia desktop, stanno, naturalmente, facendo il loro lavoro, che non è quello di rivelare la verità bensì di guidare azioni utili. Il teorema FBV rivela che man mano che i sensi diventano più complessi, avrebbero meno possibilità di rivelare delle verità sulla realtà oggettiva. Ovviamente, il teorema Fitness Batte Verità non significa una battaglia vinta. Il nostro solito modo di pensare noi stessi e il nostro mondo potrebbe resistere argomentando che forse il teorema FBV valga solo per i payoff di Fitness fissi e che se i vantaggi o payoffs fluttuassero rapidamente, la strategia migliore sarebbe vedere la realtà per come essa sia. Hoffman sostiene che i payoffs, come il tempo meteorologico, siano mutevoli. E per lo stesso motivo, stando a lui e anche al pensiero convenzionale, entrambi deriverebbero da complesse interazioni tra una pletora di fattori. In ogni modo, dal suo punto di vista, i payoffs proteiformi non consentirebbero alla Verità la tenuta. Nella competizione della selezione naturale, la Verità, non meno della Fitness, dovrebbe tenere traccia della sequenza volatile dei vantaggi di fitness. Ad ogni passo di questa sequenza, il Teorema FBV rivelerebbe che la strategia della ricerca della Verità della struttura della realtà sia meno adatta, con un ammortamento negativo che ne accelererebbe la sua rovina.
Sebbene il flusso dei profitti non sia di aiuto alla Verità, suggerirebbe, stando alla teoresi, che la Fitness sia modellata dalla selezione naturale per riportare differenze nei vantaggi anziché payoffs assoluti. L’evidenza di questo fenomeno la si vedrebbe nella ricerca sull’adattamento percettivo. Ad esempio, se si mettono degli occhiali rosa, il mondo appare rossastro ma non per molto. Presto si ritorna a vedere la normale gamma di colori. Se si fissa una cascata per un minuto e poi si guardano le rocce vicine, sembreranno salire mentre, in realtà, restano fermi. Ugualmente, se si entra in un cinema in un pomeriggio soleggiato tutto sembra nero ma presto si vedono le sfumature di grigio. Anche se si fissa una faccia felice per un minuto, poi se si guarda una faccia con un’espressione neutra per un istante ci sembrerebbe triste. Perfino se si fissa un’immagine sfocata per alcuni secondi poi il mondo ci appare più nitido e, viceversa, se si fissa un’immagine nitida il mondo poi esso ci appare sfocato. In proposito dell’adattamento percettivo si pensava che esso fosse semplicemente un’anomalia dovuta alla sovraesposizione ma gli esperimenti dello studioso in materia, Michael Webster, rivelerebbero che esso sia una caratteristica essenziale di tutti i livelli di elaborazione percettiva.31Quando cambia l’ambiente percettivo i nostri sensi si adattano rapidamente per riportare i relativi payoffs o benefici nel nuovo contesto, codificano, in modo efficiente, le informazioni sulla fitness.
Oppure si potrebbe sistemare l’ambiente e modificare i payoffs. Brian Marion, studiando l’impatto dell’utilità nell’evoluzione della percezione, ha condotto esperimenti in cui avrebbe fatto giocare agli osservatori un gioco in cui guadagnavano punti per discriminare i colori. Se venivano offerti più punti per discriminare i blu rispetto ai rossi, in pochi minuti discriminavano meglio i blu.32 Questo ha senso se la percezione riporta differenze nei payoffs. Infatti, la ricerca di Marion suggerirebbe confermare che laddove non c’è differenza nei payoffs, non c’è vantaggio nell’adattarsi in tempo reale per vedere quelle differenze. L’adattamento alle scene e le ricompense sarebbero due aspetti di un unico processo: il monitoraggio dei payoffs della fitness. Dunque, la ragione per cui l’adattamento non sarebbe un’anomalia curiosa ma appaia, invece, a tutti i livelli di elaborazione percettiva, sarebbe che il monitoraggio dei profitti o payoffs della fitness sia l’intero gioco.
Ma quest’enfasi sulla selezione naturale e sull’adattamento solleva un’obiezione diversa, formulata dallo psicologo della percezione e ricercatore nell’ambito delle scienze cognitive Rainer Mausfeld. Stando a lui “il ruolo effettivo della selezione naturale nell’evoluzione di sistemi biologici complessi è molto ovvio. … La biologia evoluzionistica ha, negli anni più recenti, accumulato prove pervasive che suggeriscono che la stragrande maggioranza del cambiamento evolutivo ha, però, piuttosto poco a che fare con la selezione naturale”. Mausfeld teme che gli argomenti discussi qui prendano la selezione naturale “come un fattore quasi esclusivo che regola il cambiamento evolutivo.”33 La selezione naturale agisce, di fatto, in coordinamento con molti collaboratori. Ci sono, ad esempio, come segnalato in precedenza, la deriva genetica e la diffusione casuale di un allele neutro, che non avrebbe alcun effetto sulla fitness di una popolazione. Questo sarebbe più probabile nelle popolazioni più piccole. In ogni modo, la deriva genetica, secondo alcuni, come il biologo ricercatore Laurent Duret, rappresenterebbe la maggior parte dell’evoluzione molecolare.34 Questo porta a supporre che sarebbe possibile che la deriva neutrale di oggi possa, con il cambiamento delle nicchie, diventare il punto di svolta di domani. Poi, tra i tanti altri fattori che incidono nel cambiamento evolutivo, c’è la fisica. La gravità, ad esempio, impedirebbe la stabilità degli arti in movimento e la circolazione del sangue, inducendo l’evoluzione della simmetria bilaterale nella maggior parte degli animali e ostacolando l’evoluzione del collo più lungo di quello di una giraffa. Poi ci sarebbe la chimica. Dei novantadue elementi presenti in natura solo sei – carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, calcio e fosforo – compongono il 99 percento della massa degli organismi. C’è, addirittura, il fenomeno dei geni associati o linkage35 per cui gli alleli vicini su un cromosoma tenderebbero ad essere ereditati insieme durante la meiosi. E ci sarebbe da considerare perfino la pleiotropia in cui un gene può influenzare aspetti disparati del fenotipo, a volte con effetti opposti sulla fitness.
Ci sono, senza dubbio, altri fattori nel cambiamento evolutivo. E, sicuramente, l’osservazione di Mausfeld potrebbe avere pertinenza sul fatto che la stragrande maggioranza del cambiamento evolutivo avrebbe poco a che fare con la selezione naturale. Ma questo non è il punto di quest’argomentazione. La domanda non è quanto del cambiamento evolutivo sia dovuto alla selezione naturale ma piuttosto sulla direzione della selezione naturale stessa. Nessuno sostiene, ad esempio, che noi umani vediamo la realtà così com’è a causa del processo evolutivo della deriva genetica. La deriva genetica nonpotrebbe fare il lavoro. Né potrebbero la fisica, la chimica, il linkage e nemmeno la pleiotropia. Quando i difensori della percezione veritiera usano l’evoluzione per favorire il loro punto di vista, sostengono che le percezioni veritiere siano percezioni più adatte e che vedere la realtà così come essa sia conferirebbe, effettivamente, un vantaggio selettivo. Che la selezione naturale sia o meno la forza principale dell’evoluzione, essa è la forza a cui fanno appello i sostenitori della percezione veritiera, l’unica, sembrerebbe, a cui possono fare appello a sostegno della loro affermazione. Ma ciò che il teorema FBV si limita a proporre è che la selezione naturale, per quanto maggiore o minore possa essere quale forza, non modella le nostre percezioni perché siano veritiere. Questa costituisce una cattiva notizia per i fiancheggiatori di una percezione veritiera nell’unico posto in cui alcuni avevano sperato che la notizia potesse essere positiva.
Ma, ancora si potrebbe sottoporre il teorema FBV ad un’ulteriore verifica assumendo che nella sua formulazione sia stato commesso un errore diverso e piuttosto sostanziale. Di fatto, Jonathan Cohen, studioso delle rappresentazioni percettive e della veridicità nella percezione come interfaccia, considera che l’eventuale errore può essere pertinente al contenuto degli stati percettivi. Infatti, lui pone la questione in questi termini: “gli stati percettivi hanno un contenuto, intuitivamente, e ciò che trasportano come informazioni ci racconta o dice del mondo ma questo contenuto può essere valutato per verità o falsità”.36 Quindi, per esempio, se si ha un’esperienza percettiva che può essere descritta come vedere un pomodoro rosso a un metro di distanza, allora il contenuto di quest’ esperienza, ciò che dice del mondo, potrebbe essere che in realtà ci sia un pomodoro rosso a un metro di distanza. In effetti, questa costituisce un’affermazione standard in molti resoconti filosofici sul contenuto di tale esperienza. Ma a favore del teorema FBV va segnalato che questo non specifica quale potrebbe essere il contenuto delle esperienze percettive. Il teorema FBV conclude, soltanto, che le esperienze, qualunque sia il loro contenuto, non sarebbero da intendersi come veritiere nei termini di corrispondere alla reale struttura esterna alla soggettività percettiva.
Cohen sostiene, da parte sua, che proporre che le esperienze non siano veritiere sia un errore perché “non si può dire se qualcosa sia vero o no senza prima sapere cosa si sta dicendo”.37 Stando a lui, se si dice “uno più uno fa due”, si può decidere se quell’affermazione sia vera perché si sa cosa si sta dicendo. Ma se si dice “bla più bla bla”, allora non si può sapere se quell’asserzione sia vera perché sarebbe priva di significato in quanto non avrebbe contenuto inerente al mondo. Se Cohen avesse ragione, allora sì che il teorema FBV avrebbe commesso un errore fondamentale proprio all’inizio ma esso non ci dice, in anticipo, quali siano i contenuti dell’esperienza percettiva, cosa le nostre esperienze dicano sul mondo, perciò il teorema, nel caso, non potrebbe dirci in alcun modo se le nostre esperienze percettive siano veritiere. Il teorema FBV, va ribadito, non enuncia che i contenuti relativi alle esperienze siano veritieri. I filosofi stessi ci avrebbero detto il perché nel loro studio della logica formale. Supponiamo che qualcuno ci dica che p è un’affermazione particolare e che q è un’affermazione particolare, ma si rifiuti di dirci quale sia l’una o l’altra affermazione. Poi, supponiamo che faccia l’ulteriore asserzione, “p è vero o q è vero”. Se ci si chiedesse se quest’ultima affermazione sia vera, dovremmo alzare le spalle, senza immaginarci una risposta, perché, come dice Cohen stesso, se non si rivela il contenuto di p e q, allora non si può rispondere alla domanda. Ma supponiamo che qualcuno, invece, affermi che “qualora sia p che q siano vere, allora ne segue che p sia vera”. Se ancora ci si chiedesse se quest’asserzione sia vera, a questo punto non dovremmo alzare le spalle ammutoliti perché sappiamo che quest’affermazione sia falsa, anche se non conosciamo il contenuto di p o q.
Questo è il potere della logica e della matematica più in generale. Ci permette di valutare la verità o la falsità di grandi classi di affermazioni semplicemente in virtù della loro struttura logica o formale. I matematici dimostrano teoremi sulla funzione e su altre strutture degli insiemi senza mai rispondere alla domanda “Insieme di cosa?” A loro non importa. Questo non conta. Che si tratti di un insieme di mele, arance, quark o possibili universi, il teorema si applica ancora. Non è necessario specificare alcun contenuto precedente per gli elementi degli insiemi. In particolare, il ricco campo della teoria dell’informazione, che sta alla base di Internet e delle telecomunicazioni, ha potenti strumenti e teoremi che descrivono, in dettaglio, come i messaggi possono essere strutturati e comunicati senza mai specificare il contenuto di alcun messaggio. La varietà di contenuti particolari è infinita, tutti conformi a regole specifiche, permettendoci di creare una scienza rigorosa – teoria dell’informazione – che si applica a tutti i messaggi di qualsiasi contenuto. È questa l’intuizione alla base del teorema Fitness Batte Verità, che utilizza la struttura formale del darwinismo universale per enunciare fatti universali su qualsiasi sistema percettivo evoluto, indipendentemente dai loro contenuti particolari.
In breve, il teorema FBV non avrebbe bisogno di una precedente teoria del contenuto percettivo.38 Ma in un capovolgimento della logica proposta da Cohen, il teorema vincola, effettivamente, le teorie ammissibili del contenuto percettivo. In particolare, secondo il Teorema FBV, qualsiasi teoria del contenuto percettivo che presuppone che le percezioni siano, nel caso normale, veritiere, sarebbe, quasi sicuramente, falsa, perché noi umani evolviamo per rilevare e agire sulla fitness, non per percepire la vera struttura della realtà oggettiva. Questo vale per le nostre percezioni degli oggetti di medie dimensioni che ci circondano. Quando si ha un’esperienza che può essere descritta come un pomodoro rosso a un metro di distanza, il contenuto di quell’esperienza non è che ci sia nella realtà oggettiva, anche quando nessuno guarda, un pomodoro rosso a un metro di distanza. Come succede, di conseguenza, il Teorema FBV esclude tutte le teorie di contenuto attualmente proposte nella filosofia della percezione.39
Il teorema FBV porta avanti un’intuizione del teorico evoluzionista Robert Trivers che suggerisce che “la controversa visione, secondo cui la selezione naturale favorisca i sistemi nervosi che producono immagini sempre più accurate del mondo deve essere una visione molto ingenua dell’evoluzione mentale”.40 Infatti, anche secondo il teorema FBV una tale visione dell’evoluzione percettiva sarebbe molto naïve. Steven Pinker, studioso della cognizione umana, cercando di spiegare come funziona la mente umana, riassume bene l’argomento: “Siamo organismi, non angeli, e le nostre menti sono organi, non condutture verso la verità. Le nostre menti si sono evolute per selezione naturale per risolvere problemi che erano questioni di vita o di morte per i nostri antenati, non per comunicare con la correttezza”.41
Quando l’acido universale dell’idea pericolosa di Darwin viene versato sulle nostre percezioni dissolve l’oggettività degli oggetti fisici che pensavamo esistessero e interagissero anche quando nessuno guarda. Di conseguenza, questo acido dissolve l’oggettività dello spazio-tempo stesso, la struttura stessa entro la quale è stata ipotizzata l’evoluzione darwiniana. Questo ci richiede di escogitare un sistema di riferimento più fondamentale – senza spazio, tempo e oggetti fisici – per comprendere la realtà. Bisognerà capire le dinamiche di questo nuovo sistema di riferimento. Di fatto, quando proiettiamo questa dinamica nell’interfaccia spazio-temporale dell’Homo sapiens, dovremmo recuperare l’evoluzione darwiniana perché l’idea di Darwin ci costringe a pensare all’evoluzione darwiniana stessa, quale un suggerimento imperfetto, espresso nel linguaggio di spazio-tempo e di oggetti delle nostre percezioni, su una dinamica più profonda e ancora sconosciuta. L’idea di Darwin dell’algoritmo universale, come ha sempre detto Dawkins, è davvero pericolosa.
Questa è stata, certamente, una lunga argomentazione, ma come abbiamo imparato, seguendola, il punto non è proprio quello di cogliere la struttura concettuale reale ed ogni particolare di questa. Applicando l’intuizione centrale di quest’esposizione, la strategia dovrebbe essere, invece, quella di cogliere ciò che ce di utile per migliorare la nostra esistenza, vale a dire di valore pratico per aumentare la nostra fitness, stimolando una riflessione volta a ridimensionare la presunzione che è venuta a caratterizzarci come organismi adattativi, finiti, intrappolati nel ballo a maschera della nostra civiltà, costumati da rigide metafisiche, scambiando costrutti sociale per verità scientifiche, come se la scienza fosse una qualsiasi indubitabile ontologia, a volte, effettivamente, maltrattando la nostra condizione di organismi.
Quando tutto sembra mostrarci che i nostri comportamenti non sono guidati prettamente da una ricerca della verità ma da ciò che al gruppo, che include il singolo, appare utile per la sopravvivenza, c’é poco d’aggiungere. Possiamo interpretare la nostra ubbidienza alla biopolitica come un semplice comportamento adattativo, una condotta che nell’immediato ci accomoda, anche se non sappiamo quale sia il vero impatto che avrà su di noi domani. Certamente, lo scenario che si schiude, se interpretiamo il diffuso ossequio allo scientismo del controllo sanitario che ci promette di salvaguardarci dal Covid19 alla luce del teorema fitness batte verità, la scena ha del comico e, inevitabilmente, del tragico e dell’assurdo.
______________Note _________________
1 Donald Hoffman. The Case Against Reality. Why Evolution Hid the Truth from our Eyes. W.W. Norton & Company, N.Y. 2019
2 Andy Clark. Surfing uncertainty. Prediction, action, and the embodied mind. Oxford University Press, 2019
3 Fitness, indica, in termini evoluzionistici, una valutazione genetica. Concetto di natura biologica che esprime la capacità di un organismo di avere successo riproduttivo e quindi di replicare i propri geni. Rappresenta l’idoneità riproduttiva di un organismo, ossia esprime la capacità dell’individuo di essere adatto all’ambiente in cui vive e di potersi pertanto riprodurre con successo. Si definisce fitness darwiniana la probabilità che un fenotipo sopravviva e contribuisca al pool genico della generazione successiva rispetto ad un altro fenotipo. Tale definizione originaria del termine è di natura genetica. In campo genetico ha un significato che potrebbe sembrare differente rispetto a quello culturale in cui abitualmente utilizziamo questo termine. Buona parte dell’impegno che un individuo, umano dedica alla propria fitness presenta il fine di poter avere successo con le persone. Ci si mantiene in forma per piacere agli altri, per essere attraenti che, in termini biologici, significa, di fatto, potersi riprodurre.
4 La selezione naturale: fenomeno per cui organismi della stessa specie con caratteristiche differenti otterrebbero, in un dato ambiente, un diverso successo riproduttivo; quindi, le caratteristiche che tendono ad avvantaggiare la riproduzione diventerebbero più frequenti di generazione in generazione. Si avrebbe selezione perché gli individui avrebbero diversa capacità di utilizzare le risorse dell’ambiente e di sfuggire a pericoli presenti (come predatori e avversità climatiche); infatti le risorse a disposizione sono limitate e ogni popolazione tende ad incrementare la sua consistenza in progressione geometrica, per cui i conspecifici competono per le risorse (non solo alimentari). Mutazione e selezione, prese singolarmente, non potrebbero produrre un’evoluzione significativa. La mutazione non farebbe che rendere le popolazioni sempre più eterogenee. Per il suo carattere casuale, nella maggior parte dei casi essa è neutrale, oppure nociva, per la capacità dell’individuo che la esibisce di sopravvivere e/o riprodursi. La selezione, dal canto suo, non potrebbe introdurre nella popolazione nessuna nuova caratteristica: tenderebbe anzi ad uniformare le proprietà della specie. Grazie a sempre nuove mutazioni la selezione avrebbe la possibilità di eliminare quelle dannose e propagare quelle (poche) vantaggiose. L’evoluzione sarebbe quindi il risultato dell’azione della selezione naturale sulla variabilità genetica creata dalle mutazioni (casuali, ovvero indipendenti dalle caratteristiche ambientali). L’azione della selezione naturale e delle mutazioni viene analizzata quantitativamente dalla genetica delle popolazioni. La selezione sarebbe controllata dall’ambiente, che varia nello spazio e nel tempo e comprende anche gli altri organismi. Le mutazioni fornirebbero perciò il meccanismo che permette alla vita di perpetuarsi. Infatti gli ambienti sono in continuo cambiamento e le specie scomparirebbero se non fossero in grado di sviluppare adattamenti che permettono di sopravvivere e riprodursi nell’ambiente mutato.
5 A 1954 letter of Pauli to Einstein, in Born, M. 1971. The Born-Einstein Letters (New York: Walker). Tradotto in italiano come Scienza e Vita. Lettere (1916-1955) Scambio epistolare tra due giganti della fisica del’900 che riassume le grandi difficoltà interpretative del formalismo quantistico, ancora oggi oggetto di dibattiti. Mentre Einstein riteneva che la meccanica quantistica nella sua interpretazione standard fosse incompleta, Max Born, che propose per primo l’interpretazione probabilistica della funzione d’onda, era in profondo disaccordo sulla necessità di modificare la teoria introducendo variabili da essa non descritte. Poiché questo dibattito verteva sui fondamenti concettuali della nuova meccanica quantistica, aveva un carattere senz’altro filosofico. L’epistolario chiamava in causa anche problemi umani, politici e sociali profondamente radicati nel periodo storico dal 1916 al 1955. Il titolo “Scienza e vita” è quindi quanto mai appropriato per dar conto dell’inestricabilità dei problemi scientifici con quelli filosofici in senso lato.
6 Bell, J. S. “On the Einstein Podolsky Rosen paradox”, Physics 1:195-200
7 Wilkins, John S., and Griffiths, Paul Edmund. 2012. “Evolutionary debunking arguments in three domains: Fact, value, and religion,” in J. Maclaurin and G. Dawes, eds., A New Science of Religion (New York: Routledge). Già dai tempi di Darwin le persone si sono preoccupate delle implicazioni scettiche dell’evoluzione. Se le nostre menti sono prodotte dall’evoluzione come quelle degli altri animali, perché supporre che le credenze che producono siano vere, piuttosto che semplicemente utili? John Wilkins e Paul Edmund Griffiths hanno considerato la questione della veridicità o dell’utilità delle credenze in tre diversi domini: religione, moralità e affermazioni di buon senso e scientifiche su questioni di fatto empirico. Nella loro indagine avrebbero identifichiamo risposte allo scetticismo evoluzionistico che funzionano in alcuni domini ma non in altri. Una risposta sarebbe che ci si può aspettare che l’evoluzione generi sistemi che producono credenze veritiere in qualche dominio. Questa risposta funzionerebbe per le credenze di buon senso e potrebbe essere estesa alle credenze scientifiche ma non funzionerebbe nello stesso modo per le credenze morali o religiose. Una risposta alternativa che sarebbe stata usata per difendere le credenze morali è che la loro verità non consisterebbe nel rintracciare uno stato di cose esterno. Che abbia o meno successo nel caso delle credenze morali, questa risposta risulterebbe meno plausibile per le credenze religiose. Quindi le credenze religiose emergerebbero come particolarmente vulnerabili al ridimensionamento evolutivo.
8 Darwin, C. 1859. On the Origin of Species by means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life (London: John Murray, 127).
9 Darwin, C. 1871. The Descent of Man, and Selection in relation to Sex (London: John Murray, 62)
10 Smolin, L. 1992. “Did the universe evolve?” Classical and Quantum Gravity 9: 173-191; Smolin, L. 1997. The Life of the Cosmos, Oxford University Press
11 Dawkins, R. 1983. “Universal Darwinism”, in D. S. Bendall, ed., Evolution from Molecules to Man (Cambridge, UK: Cambridge University Press); Dennett, D. 1996. Darwin’s Dangerous Idea: Evolution and the Meanings of Life (New York: Simon & Schuster)
12 Dennett, D. 1996. Darwin’s Dangerous Idea: Evolution and the Meanings of Life (New York: Simon & Schuster)
13 Ibidem
14 Donald Hoffman, op. cit. 2019
15 Polis, G. A., and Farley, R. D. 1979. “Behavior and ecology of mating in the cannibalistic scorpion Paruroctonus mesaensis Stahnke (Scorpionida: Vaejovidae)”, Journal of Arachnology 7: 33-46
16 Smith, J. M., and Price, G. R. 1973. “The logic of animal conflict”, Nature 246: 15-18. Smith, J. M. 1974. “The theory of games and the evolution of animal conflicts”, Journal of Theoretical Biology 47: 209-21
17 Maynard Smith e Price hanno introdotto il concetto di strategia evolutivamente stabile, concetto centrale nella teoria dei giochi, disciplina che studia modelli matematici di interazione strategica tra agenti razionali, con applicazioni in vari campi delle scienze sociali, così come nella logica, nella teoria dei sistemi e nell’informatica. Originariamente focalizzata sui giochi a somma zero, in cui i guadagni o le perdite di ogni partecipante sono perfettamente bilanciati da quelli degli altri, la teoria dei giochi contemporanea si applica ad una gamma di relazioni comportamentali, ed indica ormai genericamente la scienza delle decisioni logiche negli esseri umani, negli animali, e nei calcolatori.
18 Bistabilità – In fisica, la possibilità per un sistema di sussistere in due stati distinti per gli stessi valori dei parametri esterni che lo condizionano, l’uno o l’altro stato essendo determinati dalla storia passata del sistema.
19 La morra cinese, comunemente conosciuta come carta-sasso-forbici, è un gioco di mano popolare, spesso giocato dai bambini. Il gesto di partenza del gioco è quasi identico a quello del “pari o dispari”, e il gioco viene usato spesso in contesti analoghi, ovvero quando si debba “tirare a sorte”. Diversamente da quanto avviene col lancio della moneta o con altri sistemi puramente aleatori (e contrariamente a quanto si potrebbe forse pensare) esiste in questo gioco un margine per applicare strategia, per lo meno se lo si gioca ripetutamente con lo stesso avversario: si può infatti prestare attenzione alle sue “debolezze” (ovvero, l’eventuale tendenza ad agire con qualche regolarità e quindi prevedibilità).
20 Nowak, M. A. 2006 Evolutionary Dynamics: Exploring the Equations of Life (Cambridge, MA: Belknap Press)
21 La ricerca attuale di Chetan Prakash intende elaborare una teoria che mostri come la coscienza dia origine al mondo “fisico” come nostra interfaccia con la realtà, in contrasto con l’idea che i cervelli producono la coscienza. Poiché questo “difficilmente reversibile problema della coscienza” non è affatto una visione standard nella comunità scientifica, Prakash ha usato rigorose analisi matematiche per dimostrare la falsità della credenza comunemente diffusa che l’evoluzione ci abbia portato a percepire una realtà “oggettiva” con un aumento progressivo della precisione.
22 Un teorema è una proposizione che, a partire da condizioni iniziali arbitrariamente stabilite, trae delle conclusioni, dandone una dimostrazione. I teoremi svolgono un’importantissima funzione nella matematica, nella logica, in alcune filosofie e in generale in tutte le discipline formali. Teorema in greco significa: ciò che si guarda, su cui si specula; sul piano etimologico ha la medesima derivazione di teoria.
23 I fotorecettori sono neuroni specializzati che si trovano sulla retina. La luce che arriva sul fondo dell’occhio viene “tradotta” in segnali bioelettrici che giungono al cervello attraverso il nervo ottico.
24 David Courtnay Marr è stato un neuroscienziato che ha integrato i risultati di psicologia, intelligenza artificiale e neurofisiologia in nuovi modelli di elaborazione visiva. Il suo lavoro è stato molto influente nelle neuroscienze computazionali e portò a un risveglio di interesse per la disciplina.
25Marr, D. 1982. Vision. A computational Investigation into the Human Representation and Processing of Visual Information. San Francisco, Freeman Press
26 Hood, B. 2014. The Domesticated Brain. London: Penguin. Bruce MacFarlane Hood è uno psicologo e filosofo sperimentale specializzato in neuroscienze cognitive dello sviluppo. Attualmente i suoi principali interessi di ricerca includono i processi cognitivi alla base del pensiero magico degli adulti. Bailey, D.H., and Geary, D.C. 2009. “Hominid brain evolution: Testing climatic, ecological, and social competition models”, Human Nature 20: 67-79
27 Il solipsismo, è un termine che si riferisce alla dottrina filosofica secondo cui l’individuo pensante può affermare con certezza solo la propria esistenza, poiché tutto quello che percepisce sembra far parte di un mondo fenomenico oggettivo a lui esterno, ma che in realtà sarebbe tale da acquistare consistenza ideale solo nel proprio pensiero, cioè l’intero universo sarebbe la rappresentazione della propria individuale coscienza.
28 La teoria evolutiva dei giochi è l’applicazione dei modelli presi dalla Genetica delle popolazioni della variazione nella frequenza di un gene in popolazioni alla teoria dei giochi. Differisce dalla teoria dei giochi classica perché è centrata sulla dinamica del cambio di strategia più che sulle proprietà degli equilibri della strategia. A dispetto del nome, la teoria dei giochi evolutiva è trattata molto più dagli economisti che dai biologi. La metodologia di studio solita delle dinamiche evolutive nei giochi è attraverso equazioni di replicatori. Queste suppongono popolazioni infinite, tempo continuo, totale commistione e autentiche strategie di riproduzione Gli attrattori (punti stabili fissi) delle equazioni sono equivalenti agli stati stabili di evoluzione.
29 Mark, J.T. 2013. “Evolutionary pressures on veridical perception: When does natural selection favour truth?” PhD diss., University of California-Irvine; Hoffmann, D., Singh, M., and Mark J. T. 2013. “Does evolution favour true perceptions? Proceedings of the SPIE 8651, Human Vision and Electronic Imaging XVIII, 865104
30 L’argomento fantoccio è una fallacia logica che consiste nel confutare un argomento proponendone una rappresentazione errata o distorta. In una discussione una persona sostituisce all’argomento A un nuovo argomento B, in apparenza simile. In questo modo la discussione si sposta sull’argomento B e l’argomento A non viene affrontato. Ma l’argomento B è fittizio: è costruito espressamente per mettere in difficoltà l’interlocutore (ecco perché “fantoccio”). Se l’operazione retorica riesce sembrerà che l’avversario sia riuscito a smontare l’argomento A. Tutto sta nel far sembrare che A e B coincidano. L’argomento fantoccio è di solito un argomento più debole di quello iniziale e per questa ragione più facile da contestare.
31 Webster, M. A. 2014. “Probing the functions of contextual modulation by adapting images rather than observers”, Vision Research 104: 68-79; Wester, M. A. 2015. “Visual adaptation”, Annual Review of Vision Science 1: 547-67
32 Marion, B.B. 2013. “The impact of utility on the evolution of perception”, PhD diss., University of California-Irvine.
33Mausfeld, R. 2015. “Notions such as ‘truth’ or ‘correspondence to the objective world’ play no role in explanatory accounts of perception.” Psychonomic Bulletin Review 6: 1535-40
34 Duret, L. 2008. “Neutral theory: The null hypothesis of molecular evolution”, Nature Education 1 (1): 218
35 In genetica, fenomeno per cui due o più geni situati vicini sullo stesso cromosoma vengono trasmessi sempre insieme.
36 Cohen, J. 2015. “Perceptual representation, veridicality, and the interface theory of perception”, Psychonomic Bulletin & Review 6: 1512-18
37 Ibidem
38 Donald Hoffman, op. cit. 2019
39 For more on the philosophy of perceptual content, see Hawley, K., and Macpherson, F., eds. 2011. The Admissible Contents of Experience (West Sussex, UK: Wiley-Blackwell); Siegel, S. 2011. The Contents of Visual Experience (Oxford, UK: Oxford University Press); Brogard, B., ed. 2014. Does Perception Have Content? (Oxford, UK: Oxford University Press)
40 Foreword to Dawkins, R. 1976. The Selfish Gene (New York: Oxford University Press)
41 Pinker, S. 1997. How the Mind Works (New York: W.W. Norton)