Prendiamo spunto da una recente monografia dedicatagli (Gianluca Solla, Walter Benjamin. Pensare per immagini, inventare gesti, 2023) per dedicare il giusto spazio, in questa rubrica, ad un pensatore originale e significativo del secolo scorso.
Walter Benjamin (Berlino 1892, Port Bou 1940) è stato un outsider, suggerisce G. Solla: la sua scrittura risente sempre della “sensazione di essere in fuga, di dover far filosofia dentro la corrente inarrestabile della propria precarietà”. “E di dover eleggere questa come punto di osservazione privilegiato di quel Novecento che riuscirà solo in parte ad attraversare, ma i cui tratti centrali coglierà con finezza insuperata”. La sua fu un’arte del contrappunto filosofico, nella quale le differenti discipline perdevano i loro limiti rigidi per incontrarsi e contaminarsi. “Riflessioni su cosa? Il teatro, la letteratura, il cinema, i giocattoli per bambini, il collezionismo, il linguaggio, la traduzione, la storia… o uno dei mille temi di cui la sua inesauribile curiosità intellettuale non smetterà di nutrirsi.” La sua grande opera incompiuta è Passages, appunti di un’indagine su Parigi come capitale del XIX secolo, ma ancor più di una genealogia ed al tempo stesso di una fantasmagoria del mondo moderno.
Una scrittura che era anche una riscrittura, un mosaico, una raccolta di citazioni. Una monadologia del mondo moderno, un pensiero per immagini. La verità è aintenzionale ed è costituita da idee, ma la filosofia nasce dagli incontri con le immagini in cui la verità è disseminata. “La raccolta è, in un certo senso, un esercizio critico rivolto a oggetti, nomi, figure, luoghi in cui la modernità inscrive i suoi percorsi enigmatici.” E quell’esercizio critico è anche un’attesa di salvezza: che l’infranto possa essere ricomposto. L’Angelo della storia ha lo sguardo rivolto al passato, mentre la tempesta del progresso lo spinge verso il futuro.
Il pensiero critico è anche “uno sguardo allegorico, capace di trasformare i propri oggetti e di restituirli così a una loro vita inedita, tutta a venire.” È finalmente lo sguardo del bambino, che dà riparo a ciò che innocentemente accoglie come appartenentegli.
La conoscenza non procede in modo lineare. “La qualità che conta è l’improvvisazione. Tutti i colpi decisivi saranno assestati con la mano sinistra” (Passages).
Il moderno va riraccontato affinché non si inaridisca in esso la nostra esperienza.
L’infanzia è la sempre attuale promessa di felicità, è la magia che trascorre, è il sogno che guarda al futuro.
Aura e choc
La riflessione di Benjamin sulle nuove forme di esperienza e di espressione dell’età moderna cerca di comprendere il passaggio dalla cultura ottocentesca, permeata dal culto dell’aura, all’esposizione dell’individuo moderno a continui choc. Nell’epoca della riproducibilità tecnica il modo in cui si dà l’immagine che noi possiamo avere del mondo è cambiato, ed è compito del pensiero di stare dentro questo cambiamento.
Il carattere ieratico ed elitario dell’opera d’arte, che in un’istante irripetibile ci guarda da lontano, è conflagrato in una miriade di stimoli a tutti disponibili senza contesto, una costellazione di schegge senza un senso ed una direzione.
Avere però nostalgia di quell’aura perduta, di quelle radici indelebili e di quel sacro orizzonte finisce per essere un’operazione, teoretica come quella di Heidegger o pratica come quella dei fascismi, di estetizzazione della politica. Il modo invece di sottrarre le masse al populismo è quello di politicizzare l’arte, di rendere rivoluzionaria quella promessa di felicità che è nelle caleidoscopiche immagini del moderno. Non il socialismo reale; ma il comunismo come una magica polverina, come il bacio che possa trasformare il ranocchio in principe. Politicizzazione dell’arte, non perché abbia l’obbligo di essere engagèe, ma per il suo afflato messianico. Gli stati di choc diventano allora occasioni di risveglio. Tra uno choc e l’altro resta il tempo di una incomprensibile meraviglia.
Se la critica d’arte deve avere un suo carattere distruttivo, la scrittura di Benjamin vuole ridare vita a ciò di cui scrive. «Vorrei scrivere qualcosa che viene dalle cose allo stesso modo in cui il vino viene dall’uva». La distruzione dell’aura è interpretata da Benjamin come «la liberazione dell’oggetto dalla sua guaina».
Sulla facoltà mimetica
Tra i diversi saggi di Benjamin sul linguaggio, prendiamo in considerazione quello Sulla facoltà mimetica del 1933, per la risonanza che il tema della somiglianza ha per la medicina omeopatica.
“La natura produce somiglianze. Basta pensare al mimetismo animale. Ma la più alta capacità di produrre somiglianze è propria dell’uomo.” L’uomo produce somiglianze – la più antica funzione della danza è proprio questa – ed è in grado di riconoscerle. “Il gioco infantile è tutto pervaso da condotte mimetiche”: si imitano le persone, ma anche il movimento degli oggetti, si percepiscono forse anche somiglianze immateriali. Il linguaggio, anche al di là dell’onomatopea, è il luogo delle somiglianze immateriali. “È la somiglianza immateriale che fonda le tensioni non solo fra il detto e l’inteso, ma anche fra lo scritto e l’inteso, e altresì fra il detto e lo scritto.” Anteriore alla lingua è la lettura di ciò che non è mai stato scritto.
“Il nesso significativo delle parole e delle proposizioni è il portatore in cui solo, in un baleno, si accende la somiglianza. Poiché la sua produzione da parte dell’uomo – come la percezione che egli ne ha – è affidata, in molti casi, e soprattutto nei più importanti, a un baleno. Essa guizza via.”
Quel guizzo e quel baleno in cui si manifestano le somiglianze (tra individualità morbosa ed individualità medicamentosa), sono alla base della cura omeopatica.