L’emancipazione femminile ha ancora un lungo cammino da percorrere. Gli ambiti in cui le donne vengono discriminate non si limitano a quelli sotto gli occhi di tutti, come la disparità di trattamento economico sul lavoro o il perenne ruolo sociale di “angeli del focolare”. Riguardano, purtroppo, anche aspetti meno considerati, sebbene nient’affatto secondari. Tra questi spicca la sotto-rappresentazione femminile nella ricerca medica, che comporta danni anche gravi per la salute. Le donne, infatti, sono le maggiori consumatrici di farmaci. Eppure, come chiunque di noi può facilmente constatare consultando il bugiardino di una qualsiasi medicina, è davvero raro che vengano indicate dosi diverse per uomini e donne. Questo perché la sperimentazione dei principi attivi viene effettuata quasi sempre su individui di sesso maschile, di razza caucasica e con un peso che si aggira intorno ai 70kg.
Non servono certo grandi conoscenze mediche per comprendere che uomini e donne non reagiscono allo stesso modo ai farmaci. Per investigare questa discriminazione l’Università di Berkeley, in California, ha proposto una revisione dei principali studi sull’argomento dal titolo Sex differences in pharmacokinetics predict adverse drug reactions in women, pubblicata su Biology of Sex Differences. L’indagine ha dato risultati tristemente sorprendenti: degli 86 farmaci presi in considerazione, ben 76 avevano un “problema di genere”, a cui conseguiva una marcata differenza dal punto di vista della farmacocinetica, ossia della modalità di metabolizzazione da parte del corpo. Le donne in particolare hanno, nella quasi totalità dei casi, percentuali maggiori di principi attivi nel sangue, e impiegano più tempo per smaltirli. Per il 96 per cento dei farmaci presi in esame le probabilità del verificarsi di effetti collaterali è più alta per le donne che per gli uomini. «L’approccio ‘unisex’ nelle terapie è profondamente scorretto – sostiene il coordinatore dell’indagine, Irving Zucker – Deriva dalla storica trascuratezza del sesso femminile nelle sperimentazioni cliniche, nata perché a lungo si è pensato che le fluttuazioni ormonali nell’età fertile potessero influenzare le valutazioni sulle cure e perché fino agli anni ‘90 si sono spesso escluse le donne per paura di possibili danni in caso di un’eventuale gravidanza. Tuttavia questa differenza nell’arruolamento dei casi esiste perfino negli studi preclinici su animali e cellule, prelevate più spesso da organismi maschili»
La differenza di taglia corporea è la principale, ma non l’unica ragione per la quale i dosaggi dei farmaci andrebbero differenziati. Vi sono almeno altri due fattori per i quali le differenti reazioni ai farmaci andrebbero approfondite. Innanzitutto le differenze di sesso, diverse da quelle di massa corporea. La fisiologia del corpo femminile presenta divari, a volte molto marcati, rispetto a quello dell’uomo. Per questo motivo richiede posologie pensate ad hoc. Inoltre, vi è una terza categoria di differenze da prendere in considerazione: quella di genere. Le donne vivono in un contesto sociale e culturale diverso da quello degli uomini. In moltissimi casi, parallelamente al lavoro retribuito svolto, devono svolgere un secondo lavoro, non retribuito, che è quello di prendersi cura degli altri membri familiari, che siano bambini, anziani o il marito stesso. Questo ruolo di “caregiver” è svolto per il 70 per cento dei casi da donne, e in particolare da mogli e figlie. Qualunque sia il sentire comune, svolgere queste mansioni rappresenta un sacrificio non da poco. Vi sono studi che mostrano come le persone investite di questa responsabilità sono più esposte a patologie come depressione, insonnia o ansia. Questi aspetti non possono non essere presi in considerazione quando vengono regolate le posologie di somministrazione dei farmaci. Come, del resto, non si possono trascurare le differenze nelle abitudini alimentari. La forte asimmetricità nella considerazione dell’importanza della linea ha portato i costumi alimentari dei due sessi a discostarsi fortemente. Con aspetti positivi e negativi dall’una e dall’altra parte. Se, ad esempio, gli uomini sono meno soggetti a soffrire di disturbi alimentari quali anoressia o bulimia, sono dall’altro lato più soggetti a malattie cardiovascolari o comunque legate ad un’alimentazione non corretta. Tutte ragioni per le quali una riconsiderazione dell’importanza della sperimentazione per il genere femminile è da considerarsi una priorità.
Già nel 2000 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva menzionato, all’interno dell’Equity Act, la medicina di genere tra i punti da sviluppare per addivenire all’obiettivo di appropriatezza delle cure. Anche in Italia la consapevolezza di questo problema si sta facendo strada anche a livello legislativo, ma le azioni finora intraprese, non sono sufficienti a risolvere la disparità evidente.