Alan Watts (1915-1973) è stato un filosofo britannico, noto per i suoi studi e l’opera di divulgazione ed insegnamento della filosofia zen. Fin dalla sua opera del 1936, The Spirit of Zen, è stato tra i primi a ritenere importante che l’Occidente si volgesse con attenzione e senza pregiudizi alle tradizioni di pensiero dell’Oriente. Nello Zen lui ha peraltro individuato un crocevia ed il compimento di lunghe tradizioni culturali cinesi ed indiane, essendosi poi peraltro lo Zen radicato (dal dodicesimo secolo) in Giappone. Un modo per l’Occidente di misurarsi con una radicale sintesi della visione del mondo del lontano Oriente.
La via dello Zen
La prima profonda differenza tra Occidente ed Oriente sta proprio nel modo differente di intendere il linguaggio. Per l’Occidente il linguaggio è quella convenzione che serve, nella distinzione tra soggetto e predicato, a fissare delle entità ed a definirle. Per la saggezza orientale gli oggetti sono anche eventi, ed il linguaggio ed il pensiero cercano di tenersi all’interno di questo processo continuo. Semplificando, potremmo dire che il modo occidentale di ragionare è lineare e digitale, il modo orientale di pensare è analogico e continuo. La visione occidentale è un’analitica messa a fuoco, quella orientale guarda al contesto in cui tutto avviene. Nella prima si cerca di sciogliere la complessità del reale, nella seconda se ne vuole restituire la trama di cui è sempre intessuta. L’educazione orientale stimola la visione periferica, l’apprendimento del senso per esempio della musica, più che la sua notazione e categorizzazione. Watts cita un proverbio cinese: “Una sola dimostrazione vale cento detti”.
Ovviamente lo spirito dello Zen è presente anche nella cultura occidentale e viceversa il pensiero razionale ed analitico è presente anche nella cultura orientale, ma la predisposizione è differente nelle due culture; ed è importante per l’Occidente studiare lo Zen per ritrovare qualcosa che la visione occidentale del mondo, pur culminata nei benefici della civiltà tecnologica, ha trascurato e che può incontrare come il suo limite.
In Cina la dialettica fu tra il pensiero convenzionale e conformista del confucianesimo e la via della liberazione mostrata dal taoismo. La rigidezza e l’ordine dell’uno, l’elogio della spontaneità dell’altro. In Occidente è così radicato l’ordine logico e morale dell’Assoluto, che l’alternativa è stata spesso pensata in termini speculari di rivolta violenta. La via di liberazione invece del Tao è concreta e non astratta, è naturale e non violenta.
Quella del Tao è la via della non-dualità, in cui chi conosce e ciò che è conosciuto non restano separati. La mente si libera, e la sensazione è come quella di cavalcare il vento, di camminare sull’aria. “È uno stato di interezza in cui la mente funziona liberamente e agevolmente, senza l’impressione di una seconda mente, o ego, che la sovrasti con un randello.” Watts cita Chuang-tzu: “Il bambino guarda le cose tutto il giorno senza batter ciglio; questo perché i suoi occhi non si concentrano su qualche oggetto particolare. Egli cammina senza sapere dove va, e si ferma senza sapere ciò che fa. S’immerge nelle cose che lo attorniano e procede insieme con esse. Questi sono i principi dell’igiene mentale.”
“Il taoismo è, quindi, l’originale via di liberazione cinese che combinandosi col buddismo mahayana indiano produssero zen.”
Watts in questo senso cerca di definire delle caratteristiche generali del pensiero religioso e filosofico indiano. “La filosofia indiana si concentra sulla negazione, sulla liberazione della mente dal concetto di Verità.” Moksa, la liberazione, è per un verso liberazione da maya, dal mondo illusorio che ci appare, ma è liberazione dalla stessa concezione di una dualità di mondi. L’uomo liberato “vede il mondo che noi vediamo; ma non lo delimita, non lo misura, non lo divide alla nostra maniera.” “Per la mente che si lascia andare e si muove col flusso dei mutamenti, che diviene – secondo la raffigurazione del buddismo zen – come una palla in un torrente montano, il senso della transitorietà e del vuoto si tramuta in una sorta di estasi.” Il buddismo può così essere interpretato in continuità con la stessa tradizione induista.
L’esperienza del Budda è per sua natura indicibile. Una traccia ne può essere trovata nella dottrina delle Quattro Nobili Verità. “Queste Quattro Verità sono modellate sulla tradizionale forma vedica di una diagnosi e cura medica, cioè: l’identificazione della malattia, e delle cause; il giudizio sul metodo di cura, e la prescrizione del rimedio.”
L’identificazione con il nostro ego ci fa fare esperienza della vita come dolore e frustrazione. La causa di questa frustrazione è in effetti la brama di vivere che tiene dietro ad uno stato di ignoranza, ad una mancanza di auto-conoscenza. La fine dell’autofrustrazione, dell’attaccamento, è chiamata nirvana, il riconoscimento che la vita elude i nostri sforzi di dominio. “Questa disperazione prorompe in gioia e potere creativo, in base al principio che perdere la vita significa trovarla”. Questo è decisamente un principio dello Zen: “Il nirvana può sorgere soltanto in modo non intenzionale, spontaneo; quando sia stata completamente percepita l’impossibilità di afferrare l’Io.” Il buddismo indica poi il rimedio nell’Ottuplice Sentiero: rettitudine nella cognizione, nell’intenzione, nella parola, nella vita, nello sforzo, nell’azione, nella concentrazione, nella contemplazione.
Se lo Zen è nichilista, non lo è perché nega la realtà, ma perché nega le nostre erronee idee di realtà. Anzi: quel che pensiamo che ci manchi, in realtà lo siamo già. “Lasciate che ogni cosa sia libera di essere esattamente come è. Non separate voi stessi dal mondo e non cercate di ordinarlo”.
Per lo Zen il risveglio è immediato e non ha bisogno di spiegazioni. “Coloro che sanno non parlano; coloro che parlano non sanno”. Zen è una domanda che mostri, in una comprensione improvvisa, che non vi è risposta.
È all’insegna dello zazen, semplice meditazione senza scopi e senza aspettative, e dei koan, quelle domande o affermazioni paradossali che suscitino il risveglio, che lo Zen si insedia in Giappone.
Il significato della felicità
La ricerca di Alan Watts è anche quella di integrare la tradizione orientale con il percorso di liberazione presente anche nel pensiero occidentale. Nel 1940 pubblica Il significato della felicità.
La felicità si consegue attraverso la conoscenza. “Nei termini delle grandi filosofie orientali, l’infelicità dell’uomo è radicata nel sentimento di angoscia che si accompagna alla sensazione di essere un individuo isolato o io, separato dalla ‘vita’ o ‘realtà’ totale.
D’altro canto, la felicità (un senso di armonia, completezza e totalità) viene con la percezione che quel senso di isolamento è un’illusione. Infatti quella che si avverte come coscienza separata, individuale, è identica a quella Realtà universale e indivisa di cui tutte le cose sono manifestazioni.” Questa capacità di accettazione totale di ciò che è, è ritrovabile anche nel senso aristotelico del vero fine dell’uomo, ed è enunciabile anche nel linguaggio della moderna psicologia. “L’equivalente psicologico di questa dottrina è uno stato della mente chiamato ‘accettazione totale’, un dire di sì a tutto ciò che sperimentiamo, l’accettazione senza riserve di ciò che siamo, di ciò che sentiamo e conosciamo in questo e in ogni momento.” La conquista vera è quella di una consapevolezza oltre ogni dualità. “Ogni tentativo di fuggire la vita o di accettarla è un circolo vizioso, una vera assurdità, come cercare di conoscere la conoscenza, sentire il sentimento o bruciare il fuoco.” Trovare la felicità significa non cercarla, ma abbandonarsi ad essa. Come lo Zen aveva indicato la predisposizione alla felicità in uno stato di rilassamento. “Il rilassamento è una cosa sfuggente come la felicità; è una cosa che nessuno sforzo intenzionale è in grado di raggiungere poiché, essendo in un certo senso assenza di sforzo, ogni sforzo per raggiungerlo è controproducente.”
Watts cerca di mettere in dialogo la saggezza dell’India e della Cina antiche con la moderna psicologia dell’inconscio di Freud e Jung. Il vero Sé dell’uomo trascende la sua individualità conscia. “L’accettazione totale include sia l’io sia l’inconscio”. “La felicità più profonda si trova in un’unione o armonia consapevole fra l’individuo e il sé sconosciuto, l’universo inconscio, interiore”. La felicità è semplice in un modo paradossale e non banale. Watts cita una poesia cinese:
“È così evidente che ci vuol molto tempo per capirlo.
Devi sapere che il fuoco che cerchi
È il fuoco che arde nella tua lanterna,
E che il tuo riso è stato cotto fin da principio.”
La realizzazione della propria libertà è la scoperta dell’amore per la vita. La libertà è il senso di un centro che è già nel nostro essere. La libertà è gratitudine ed è anche responsabilità.
“La realizzazione ha compiuto la sua opera quando la vita stessa diventa un’espressione di gratitudine, e questa è la felicità più grande perché il significato della felicità consiste in tre elementi: la libertà, la gratitudine e un senso di meraviglia.”
2 commenti
Emanuela Galli
Una rarità leggere di Alan Watts, i suoi libri hanno permesso la diffusione e comprensione della filosofia orientale.
Grazie
Generiamosalute
Grazie a lei e al dott. Stelio Mazziotti di Celso che ha scritto questo articolo
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