Gilles Deleuze (Parigi, 1925-1995) è stato un filosofo francese.
In un suo tardo saggio, Che cos’è la Filosofia?, ha proposto di definire la Filosofia come un’attività creatrice di concetti. Concetti che il filosofo non possiederà mai, ma di cui sarà amico.
L’attività in effetti di Deleuze è stata una continua creazione di concetti, come già si comprende scorrendo alcuni suoi titoli: Differenza e ripetizione; Logica del senso; L’Anti-Edipo; Rizoma; Mille piani; L’immagine-movimento. Cinema. Ed anche i suoi saggi di Storia della Filosofia sono stati una riscoperta di aspetti innovativi di filosofi da lui opportunamente scelti: Leibniz, Spinoza, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson. Una costellazione di pensiero alternativa alla diade che altrimenti era stata considerata fondamentale per molta filosofia francese a lui contemporanea, e cioè Hegel ed Heidegger.
In questa breve presentazione, noi vogliamo tener dietro alla linea interpretativa dell’ottimo saggio su Deleuze di Rocco Ronchi (2015). La tesi è che Deleuze, in particolare nel suo sodalizio con Felix Guattari, possa e debba essere considerato il filosofo del Sessantotto. Ciò che dà a sua volta un’interessante interpretazione di quel movimento e di tutte le sue propaggini. Il Sessantotto come continuo, dinamico movimento di creazione di nuove realtà, in nome e nel segno della realtà stessa in luogo di aleatori o consolatori mondi immaginari e/o simbolici. Il Sessantotto come spinozismo inconscio, come realtà in fieri, come Assalto al Cielo. Il reale come univoco mondo, ma che crea continuamente nuove forme. La Filosofia di Deleuze è un elogio della Realtà come creatrice di Possibilità, come luogo di possibili libere contingenze. Se è una caratteristica della Natura di essere un’incessante e continua varietà, è per l’uomo un imperativo etico vivere pienamente la sua esperienza, essere all’altezza di ciò che accade, ritrovare dietro i fatti ciò che è più vivente. “Non ci sono cose, ma processi”.
Nel presentare Mille Piani come il seguito meno fortunato dell’Anti-Edipo, Deleuze e Guattari ascrivono a quest’ultimo l’epoca agitata del ‘68 e la scelta drastica e netta di sottrarre l’inconscio al Teatro della rappresentazione del desiderio di un oggetto mancante e restituirlo al suo funzionamento come fabbrica di desideri. Operazione incompiuta, e che comunque aveva trovato forti resistenze. “La reazione contro il ‘68 doveva dimostrare a qual punto l’Edipo familiare stesse bene e continuasse a imporre il suo regime di piagnucolio puerile in psicoanalisi, in letteratura e ovunque nel pensiero.”
Il Sessantotto va dunque considerato non tanto quella trasgressione che, sul piano simbolico, conferma la Legge, ma “un intrusione del reale puro”. Il Sessantotto va compreso non per il suo aspetto di negazione, ma per la poliedricità delle sue molteplici affermazioni. Da Anti-Edipo a Mille piani.
Se l’immaginario crea una dualità in cui “si desidera il desiderio dell’altro in un claustrofobico gioco di specchi dagli esiti mortiferi” (Ronchi), il Sessantotto ha voluto invece essere una rivoluzionaria irruzione del Reale, delle sue molteplici connessioni, del suo voler “pensare la differenza senza la negazione”; nel linguaggio della psicoanalisi: il desiderio senza la castrazione.
La spontanea contingenza e fluidità di ciò che avviene è naturalmente un’affermazione, prima di dover essere compreso come negazione della negazione. Nell’esperienza pura ogni disgiunzione è liberamente inclusiva.
Differenza e Ripetizione
Se “il mondo moderno è il mondo dei simulacri” – scrive Deleuze nella Prefazione a Differenza e Ripetizione (1968) – “noi vogliamo pensare la differenza in sé, e il rapporto del differente col differente, indipendentemente dalle forme della rappresentazione che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo”. I concetti di una differenza pura e di una ripetizione complessa si riuniscono e si confondono.
La Ripetizione può essere l’emergenza di qualcosa che rimane, più che la generalità di un’abitudine. Così come la Differenza “lascia il massimo gioco possibile all’apprensione delle rassomiglianze.”
La freudiana coazione a ripetere, fondamento dell’analisi e del transfert, non deve essere intesa come una colpa o una condanna. “Se la ripetizione ci rende malati, è anche in grado di guarire; se ci incatena e ci distrugge, può anche liberarci”. Anzi: “Tutta la cura è un viaggio al fondo della ripetizione.”
Quella forma umana di Ripetizione che è la Rappresentazione, è la suggestiva messa in gioco di sé come di una maschera. “Persino nella natura, le rotazioni isocrone sono l’apparenza di un movimento più profondo”. Se tutto scorre, il movimento di quel flusso è sempre differente.
C’è dunque, secondo Deleuze, in evidente contrasto con Heidegger, un aspetto dinamico e creativo nella dimensione superindividuale di un soggetto pubblico ed impersonale. Il Si inautentico di Essere e tempo di Heidegger, che lasciava presagire un’esistenza autentica solo nel proprio personale rapporto con la propria morte, viene ridefinito da Deleuze come un luogo di importanti possibili cambiamenti. “Il mondo del SI, o dell’«essi», è un mondo di individuazioni impersonali e di singolarità pre-individuali, che non può ricondursi alla banalità quotidiana, un mondo viceversa ove si elaborano gli incontri e le risonanze, ultimo volto di Dioniso, vera natura del profondo e del senza fondo che trascende la rappresentazione e fa emergere i simulacri”.
Il simulacro è appunto da intendere non come una diminuzione, come un’inessenziale apparenza, ma proprio come l’evento di una Differenza nella Ripetizione, come un’apparenza da elogiare. “Il simulacro è il sistema in cui il differente si riferisce al differente mediante la stessa differenza.”
Non solo l’arte, ma la vita stessa è il gioco delle differenti ripetizioni.
Logica del Senso
Dagli stoici a Lewis Carrol, la costituzione di una teoria del senso non ha potuto che essere paradossale. Una Logica del senso (1969) è un rovesciamento del platonismo, in nome del puro divenire. “Il paradosso di questo puro divenire, con la sua capacità di schivare il presente, è l’identità infinita: identità infinita dei due sensi nello stesso tempo, del futuro e del passato, della vigilia e dell’indomani, del più e del meno, del troppo e del non abbastanza, dell’attivo e del passivo, della causa e dell’effetto”. L’umanismo di questo paradossale conferimento di senso è ciò che interessa a Deleuze, non – come ad Heidegger – il sottrarsi dell’Essere nei luoghi in cui il linguaggio poetico possa evocarlo.
“Il paradosso è innanzitutto ciò che distrugge il buonsenso come senso unico, ma, anche, ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità fisse”.
Il senso è già lì, reale puro. “Il senso è sempre presupposto non appena io comincio a parlare; non potrei cominciare senza tale presupposizione”. La logica del senso, il tentativo di dire ciò che è già presupposto, diviene il paradosso della regressione o della proliferazione indefinita.
Nella Logica del senso, il significante emerge come qualcosa di sempre nuovo rispetto al significato. Ci sono molteplici modi di non tacere ciò che non si può dire.
La logica del senso è una logica paradossale, è la genesi di ogni contraddizione. Ma il suo voler comprendere ciò che accade, è anche un impegno morale. “O la morale non ha alcun senso o è appunto questo che essa vuol dire, non ha nient’altro da dire: non essere indegni di ciò che ci accade”.