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2 Luglio, 2020

Il pediatra testimone della salute familiare

RedazioneRedazione
Intervista alla dottoressa Paola Cerutti pediatra

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Tempo di lettura: 8 minuti

La storia di un medico si riflette sui suoi pazienti, le sue conoscenze e le sue credenze entrano nella nostra vita come i punti cardinali dei marinai in navigazione. Il pediatra di libera scelta stabilisce la direzione verso cui va la gestione della salute dei nostri figli. Orienta i loro processi di crescita. È un riferimento fondamentale della famiglia e della comunità. Un ruolo centrale, soprattutto perché cura ed educa alla salute i futuri protagonisti della società. Purtroppo questo ruolo, negli ultimi anni, è stato mortificato a funzioni burocratiche, spesso svilito a mero contabile della salute. È necessario invertire la rotta, recuperare quella funzione centrale del medico che conosce i nostri tessuti familiari e sociali, che è in grado di rispondere velocemente alle dinamiche di salute psico-fisica che nel corso della nostra vita incontriamo. Abbiamo intervistato la dottoressa Paola Cerutti che esercita a Certosa di Pavia come medico pediatra.

Che specializzazione ha scelto dopo la laurea in medicina.

R. Ho desiderato curare i “cuccioli” di essere umano fin da “cucciola”: specializzarmi in Pediatria è stato il coronamento di un sogno e l’inevitabile realizzazione di una propensione fatale. L’inizio di questa bella avventura è però stato più intenso del previsto: sono infatti nata professionalmente in uno dei più noti centri di Oncoematologia Pediatrica e trapianto di midollo osseo, a Pavia. Si tratta di una realtà emotivamente molto forte, straordinaria, a tratti estrema, che mi assorbiva e mi appassionava, specialmente per lo stupore che riuscivano a trasmettere a noi quei bimbi speciali, piccoli guerrieri per la vita. Tu li curavi e loro ti ristabilivano le priorità esistenziali. Ti restauravano il perduto senso di meraviglia del quotidiano.

Quello sguardo bambino è poi quello che consiglio a tutti di recuperare, come propongo nel mio libro per tutti Neonato. Istruzioni per l’uso, in cui parlo – non solo ai genitori – degli ex-bambini che tutti siamo. Non si tratta di una visione alla J M Barrie, ma di rispolverare l’ironia ludica e intelligente come strumento di cura e di equilibrio. Devo dire che io uso l’ironia come “strumento” lavorativo e che i miei piccoli pazienti me la ricaricano regolarmente, con i loro sguardi, le loro fantasie e i loro mondi paralleli.

Tornando ai miei studi, dopo gli indelebili anni in Oncoematologia Pediatrica ho proseguito la passione per il sistema immunitario dei nostri cuccioli, approfondendo gli studi di gastroenterologia, epatologia e nutrizione pediatrica, sia a Milano, al Niguarda, sia a Napoli, conseguendone il perfezionamento all’Università Federico II. Poi è arrivato il primo Master universitario, in immunopatologia clinica dell’età evolutiva, a Pavia.

Cosa significa, per lei, essere medico?

R. Un onore, un servizio. Sembra retorica? Confesso che sentirsi adeguata a questo ruolo di garante di salute, di consigliere di benessere, di responsabile del “prendersi cura” sia un percorso di crescita continuo. Dicevano che l’entusiasmo era roba degli inizi della professione di medico. Per ora non l’ho ancora perso, temo si stia cronicizzando! Occorre guardarsi bene dal delirio di onnipotenza (ci ho scritto una canzone in merito, sempre usando l’ironia come strumento, durante la pandemia: si intitola “#Covid19 epidemia di onnipotenza”), onnipotenza apparente di cui è affetta la nostra epoca, ma in particolare il mondo sanitario. Trovo che sia delirante per la scienza medica affermare di poter governare la conoscenza sottomettendola unicamente ad evidenze statistiche parcellari su grandi numeri. Gli studi e i trials clinici sono essenziali e i protocolli sono necessari per progredire nelle conoscenze mediche. Ma siamo sistemi micro- e macrobiologici complessi, in cui psiche-corpo-microbi-mente-società-ambiente non possono più essere scissi e analizzati meccanicisticamente a compartimenti stagni. Non solo. Non in maniera esaustiva.

Se il benessere deve essere biologico, affettivo, relazionale, metabolico, sociale, concordemente alle definizioni bioetiche attuali e alle indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, allora il dottore (dal lat. docēre) dovrebbe “insegnare” come gestire la propria natura (in greco φύσις, da cui physician) per stare bene, ossia per costruire il benessere. Questo è ben più sensato ed efficace che combattere ogni singola malattia scotomizzando il prima, il dopo e il durante.

Come si è avvicinata alla medicina integrata? Quali discipline olistiche ha approfondito?

R. Il primo parto cui assistetti, all’Hospital Clinico di Madrid, dove lavoravo come medico tirocinante, fu un parto complicato. Nulla di poetico: perfetta gestione tecnica, scarsa empatia, equivoca comunicazione. Mi restò impresso indelebilmente. Ne scrissi anche nel mio primo libro Come una Mamma. Storia nuda e semiseria di una Mamma tra Mamme. Le aspettative e il vissuto sono intersecati con la percezione di benessere. Quindi con il benessere stesso.

Sentivo che la medicina mainstream cominciava a dichiarare di non bastare a sé stessa, parlava di stress come causa di malattia e di counselling e creatività come parte della cura, parlava di flogosi minima persistente, di disturbi funzionali con la stessa serietà con cui aveva da sempre affrontato quelli organici, parlava di urgenza di personalizzare le cure nonostante la necessità di standardizzare protocolli. Le Neuroscienze incrementavano l’attenzione per il percepito soggettivo e per il contesto (l’ambiente sociale, culturale, economico, ecologico, microbiotico, stagionale, climatico ed emotivo).

Sicché continuai a cercare risposte, anche sollecitata dalle pressioni dei pazienti, che mi parlavano di granulini terapeutici di cui al corso di laurea e di specializzazione nessuno mi aveva illustrato il razionale. Dopo studi di omeopatia e di antroposofia ho conseguito il secondo Master universitario, a Novara, in low dose medicine (omotossicologia e medicina fisiologica di regolazione, per intenderci). Nel frattempo continuavo ad esercitare come Pediatra in realtà ambulatoriali e ospedaliere, piccole e grandi, pubbliche e private, coltivando l’esperienza sul campo in parallelo con la voracità di conoscere e approfondire prospettive complementari. Ma la curiosità, non saziata dai numerosi corsi di aggiornamento né dalle partecipazioni congressuali come uditore e relatore, mi ha infine condotto a frequentare una Scuola triennale di Agopuntura e Medicina Tradizionale Cinese accreditata ICMART e FISA. Finalmente iniziavano a posizionarsi le tessere della mia formazione, trovando incastri imprevedibilmente illuminanti e costruttivi. Ero partita dai chemioterapici, stavo approdando a concetti che potremmo definire bioenergetici. Ma non ho mai sentito queste competenze contrapporsi in un aut aut.

Nella realtà in cui lavora, com’é riuscita ad integrare la visione differente della cura con l’approccio convenzionale dei suoi colleghi?

R. Se lo chiedi a loro penso pronunceranno parole di stima e di rispetto accompagnate da una smorfia di cauta diffidenza. Ma non credo mi vogliano male per le mie stranezze, anche se non nego di aver percepito forte e chiaro il disturbo che crea un mancato “schierarsi” assolutamente pro o assolutamente contro il paradigma unico di cura. Sei unicista? Sei allopatica? Sei convenzionale? Sei alternativa? Sono medico.

Con alcuni colleghi invece, che sembravano non aspettare altro che uno stimolo trigger, si sono create delle splendide collaborazioni culturali e scambi di opinioni e di competenze, bilaterali e solidali. La complementarietà multidisciplinare degli approcci diagnostico-terapeutici non può che essere un arricchimento per l’utente (sapete che non si chiama più “paziente” perché ha perso la pazienza, vero?).

Che rapporto ha con i genitori?

R. I genitori, indipendentemente dal loro status economico e culturale, se instaurano una vera relazione di fiducia con il Curante, sono disposti a qualsiasi percorso possa condurre a un miglior livello di salute i loro figli. E, da genitore, li capisco. Ovviamente deve trattarsi di percorsi di terapia sempre basati rigorosamente sull’evidenza scientifica, sulla correttezza deontologica e sulla comunicazione rispettosa.

Sono i genitori dei piccoli pazienti che mi hanno acceso lo stimolo alla ricerca in medicina integrata. Sono i genitori stessi, quando si sentono liberi di confidarsi, che ammettono di cercare autonomamente strade alternative a quelle prescritte, sia a livello nutrizionale, sia a livello farmacologico. Sta al professionista condurli verso un percorso responsabile, consapevole e condiviso, evitando attentamente consulenze ciarlatane, informazioni devianti e pseudoterapie fideistiche, inconsistenti e costose.

Qual’è il rapporto con le farmacie di zona?

R. Dove ho lavorato e dove lavoro trovo imprescindibile coltivare un rapporto di dialogo rispettoso, sincero e discreto, con i farmacisti. A volte questo si riesce ad ottenere più facilmente, a volte richiede più tempo. Come sempre dipende dalle persone. In ogni caso il nostro ruolo prescrittivo non potrebbe prescindere dalla convivenza e dalla limpida collaborazione con le farmacie di zona. Preferisco evitare i rischi di un’autoprescrizione  e di un passaparola di prescrizioni fatte per figli di amici, parenti o conoscenti. Ribadisco l’essenzialità della medicina basata sulla persona. Curare la malattia è necessario, ma curare la persona è risolutivo.

La medicina cambia rapidamente, così come la società in cui viviamo, qual’è il contributo che il medico in questo cambiamento?

R. Il confronto dialettico costringe ad integrare. Integrare è faticoso, arricchente, complesso, ma strategico. Fare rete, networking, non è altro che la manifestazione culturale e professionale dell’olismo in cui siamo definibili come esseri. L’interdipendenza dei microsistemi individuali con i macrosistemi socioambientali rende ragione di questo. La pandemia di Covid non ne è che l’estrema e rimarchevole conferma.

Integrare senza integralismi: questo è il mio motto. Integrare paradigmi diversi è il paradigma migliore di cura, a mio parere, per un sistema complesso (vedi la meravigliosa teoria matematica dei sistemi complessi), qual è l’organismo umano in crescita ed evoluzione. La medicina integrata è applicabile in pediatria? La letteratura scientifica ce ne dà splendidi esempi. Ma vanno esaminati con rigore e discernimento, onde evitare di applicare tout court le indicazioni per l’adulto a quello che non è semplicemente un adulto in miniatura, ma un bambino, con tutte le sue specificità.

All’estero si parla di integrative pediatrics, di pediatrìa integratìva, di integrierte Pädiatrie. In Italia ancora questa integrazione è istituzionalmente limitata all’ambito strettamente medico. Trovo che oltre a creare rete tra ospedale e territorio (come sta avvenendo proficuamente in più parti in Italia), sarebbe proficuo incrementare il dialogo con e tra le figure paramediche che si occupano di care materno-infantile e pediatrica: ostetriche, psicologhe prenatali, consulenti allattamento, puericultrici, nutrizionisti, dietisti, osteopati, educatori, fisioterapisti, logopedisti, pedodonzisti, terapisti occupazionali, chiropratici, arteterapisti, musicoterapisti, petterapisti… La scelta di cura è ormai ampia e la complementarietà di certe discipline dovrebbe motivarne un dialogo aperto e costruttivo. Non servono tutti a tutti. Ciascuno merita il proprio percorso ottimale.

A che progetti sta lavorando?

R. Nel cassetto ci sono più di un paio di libri e altre quisquiglie, che devono trovare ispirazione per essere definitivamente partorite, ma non è il momento. Attualmente sto rinsaldando la relazione multidisciplinare tra amici colleghi vicini e lontani che siano quanto me desiderosi di dialogo aperto e di scambi, nell’intento comune del benessere del paziente.

Uno dei tanti incontri speciali che mi accompagnano nei momenti di perplessità e mi sostengono è il caro Prof. Ivan Cavicchi, che da oltre un decennio grida con eleganza e lucidità l’urgenza di riformare il sistema di cura unendo “le verità di ragione e le verità di fatto, oltre i pregiudizi”.

I progetti belli che mi vengono proposti e che a mia volta proporrei sono davvero tanti, ma con la pandemia le energie per ora sono meglio spese nella consolazione creativa e nell’urgente educazione primaria alla salute, piuttosto che nell’intraprendenza imprenditoriale. Educare alla salute e alla consapevolezza che gli stili di vita impattano prepotentemente anche sulla prognosi individuale di un problema globale come quello del misterioso Sars-CoV-2, è la mia vera priorità, ora. Questo evento sanitario universale, come ogni malattia, è una straordinaria opportunità.

Si parla sempre con maggiore frequenza di medicina integrata quale crede sia il ruolo di questa nella salute collettiva?

 R. Se con sistema di cura intendi un paradigma di cure l’integrazione sta già avvenendo a vari livelli: scientifico, didattico, giuridico, deontologico, clinico, economico e farmaceutico. Se si intende il sistema sanitario istituzionale, rilevo ancora una fatica a riconoscere degna e doverosa ufficialità all’integrazione dei sistemi di terapia che ancora dalle commissioni ordinistiche sono definite medicine complementari o non convenzionali. Questa non convenzionalità implica una subordinazione, che ritengo concettualmente da rivedere. Semplifico: quando è fallimentare la medicina convenzionale mi dovrei rivolgere, in seconda battuta, alle medicine complementari, che invece per loro natura si prestano più che mai alla prevenzione primaria e secondaria? Lo trovo un interessante paradosso dai risvolti sociopolitici ed economici palpabili.

Detto questo, l’integrazione non dovrebbe diventare un pot pourri di offerta mescolata confusamente da uno stesso professionista, bensì una rete collaborativa multidisciplinare interagente riconosciuta. Penso ne gioverebbe sia il benessere complessivo dei singoli, sia, a ben guardare, l’economia sanitaria.

Abbiamo tutti a cuore la salute e la crescita sana dei nostri giovani, cosa può fare la medicina omeopatica in questa delicata fase della vita?

R. Nonostante il discredito sistematico condotto nei confronti dell’omeopatia da parte del sistema comunicativo “obbediente”, la riconosciuta innocuità dei rimedi omeopatici ne consente certamente un uso abbastanza sereno nei confronti degli individui giovanissimi e nei fragili. Al contempo, però, la ricorrente svalutazione della necessaria competenza omeopatica ha troppo spesso permesso l’uso di medicinali omeopatici in disconnessione da una corretta diagnosi omeopatica. Quindi io ritengo che strategie omeopatiche, anche integrate, governate dalle giuste competenze, siano prezioso strumento per la gestione della salute di organismi in crescita, in cui le tinte del terreno costitutivo emergono con una purezza che indirizza più limpidamente la direzione terapeutica e rende ragione della particolare efficacia dei trattamenti.

Qual è il ruolo dei genitori nei percorsi di crescita e di cura propri della medicina omeopatica e delle medicine basate sull’uomo che tu proponi? Qual è il ruolo del pediatra di libera scelta sul rapporto familiare e nel rapporto tra medico e genitore?

 A livello etico non vanno assolutamente promosse scelte terapeutiche solo perché richieste dal genitore, il quale può non avere né l’obiettività né le competenze per poter scegliere adeguatamente e potrebbe talora agire mosso dall’emotività, dall’ansia, dal passaparola o persino dal delirio di controllo. Vanno però valorizzate le inclinazioni dei genitori e i punti di forza della loro relazione con i figli. Il genitore è il primo gestore della “cura” del bambino e il “parenting” include la scelta dei percorsi di crescita e di cura. Al pediatra spetta il ruolo di educare l’educatore, di accompagnarlo con rispetto, discrezione, fermezza e ascolto, di aiutarlo a conoscere, sostenere e proteggere lo sviluppo del piccolo uomo e della piccola donna che crescono. Sta al pediatra interloquire personalizzando le indicazioni sul bambino e sulla situazione affettiva, culturale, sociale, sanitaria e persino economica della famiglia. Non tutte le terapie sono per tutti. Ma la “cura” della salute è per tutti. E si tratta di un percorso che deve essere consapevole e condiviso.

 

 

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