Scienza e Arte nella medicina hanno entrambe grande importanza, ma bisogna capire bene le differenze, proprio per apprezzarle.
Il sapere scientifico ha una natura oggettiva, impersonale, universale e usa un giudizio di tipo prevalentemente quantitativo. L’arte ha una natura soggettiva, personale, individuale e usa un giudizio di tipo prevalentemente di tipo qualitativo.
Nei secoli, nello sviluppo della civiltà occidentale, si è visto una progressiva prevalenza del primo tipo di sapere sul secondo. Forse l’ultimo genio che li ha tenuti insieme fu Leonardo da Vinci, ma anche Michelangelo, suo contemporaneo può essere annoverato tra gli artisti capaci di usare la scienza e la tecnologia. Vissero tra il Quattrocento e il Cinquecento. Galileo, invece, visse un secolo dopo e già segnò la grande separazione tra scienza sperimentale e arte terapeutica, poi teorizzata da Claude Bernard (XIX secolo). Oggi siamo al capolinea di tale separazione: “Occorre riconoscere che la medicina sembra essere arrivata al capolinea di quel processo innescato dalla decisione di Claude Bernard di trasformare l’arte terapeutica in medicina sperimentale. Senza mettere in discussione l’imprescindibile riferimento alla scienza sperimentale, non si può evitare di denunciare il grave rischio che la medicina attuale ceda alla tentazione dell’utopia.” [1] (p. 36).
In Wikipedia (che nel bene e nel male è considerata una delle fonti più convenzionali di conoscenza) si legge: “La medicina è la scienza che studia le malattie del corpo umano al fine di cercare di garantire la salute delle persone, in particolare riguardo alla definizione, prevenzione e cura delle malattie”.
Questa è una definizione apparentemente ovvia, quasi incontestabile. In realtà è semplicistica fino ad essere errata e fuorviante, per molti motivi, che qui enunciamo in sintesi
- Un conto è scrivere queste belle parole, un conto è vedere come si realizzano in pratica. Ciò che è successo durante la pandemia COVID-19 è sotto gli occhi di tutti. Per la prevenzione, i “vaccini” erano stati presentati come la punta di diamante della scienza, ma si sono rivelati un fallimento quasi totale sia nell’efficacia sia nella sicurezza (non abbiamo qui il tempo per analizzare i vari aspetti). Il vaccinismo è il prodotto tipico dell’idolatria della cosiddetta “scienza medica” predicata dai politici, dai mass-media e dagli ordini dei medici. Altrettanto dicasi per le cure, che non sono state affatto garantite, né dal sistema sanitario, né dalle case farmaceutiche. Ben oltre la pandemia, la “scienza” medica ha generato farmaci, ospedali e strutture enormi e dal costo inverosimile, probabilmente ha contribuito ad allungare la durata della vita (soprattutto per la cura delle malattie infettive epidemiche di un tempo come malaria, tifo, peste, colera, nonché l’igiene e la chirurgia) ma la qualità di salute delle persone non è certo migliorata. Anzi. ‘Nemesi Medica’ di Ivan Illich mostra i danni che l’autogiustificazione “scientifica” della medicina ha apportato in chiave iatrogenica, cioè di danni che derivano dalla medicina stessa. E insieme l’allontanarsi dalla sua funzione di prevenzione e cura, in una costante verifica dialettica tra malati e medici e il trasformarsi in una vulgata corporativa autosufficiente.
- L’oggetto della medicina, secondo la definizione data sopra, è la “Malattia”, ma si tratta di una entità che nella realtà “non esiste”. Esistono i malati, non le malattie, che sono entità astratte, categorie nosologiche. Questo si capisce bene leggendo la ‘Nascita della clinica’ di Michel Foucault. La clinica nasce dal bisogno di avere sottomano un numero sufficiente di casi per tirarne fuori delle statistiche. Per questo si crea l’entità nosologica. Sosteneva Sydenham: “Il nostro primo compito è di ricondurre tutte le malattie a certe ‘specie’ ben definite, con la stessa esattezza usata dai botanici nel compilare le loro classificazioni” (Th. Sydenham, Observationes medicales circa morborum acutorum historiam et curationem, London 1676). Ma l’entità morbosa vera e propria non può essere compresa in una classificazione, perché è fatta dalle innumerevoli modifiche fisiopatologiche che distinguono un sano da un malato (ammesso che esistano persone sane), combinazione di diverse e numerose variabili genetiche e ambientali. Ma anche con le classificazioni si arriva ai paradossi: quanto più precisa è la classificazione, tanto meno casi si trovano con quelle caratteristiche. Non per niente, la genetica stessa dimostra che ogni individuo è diverso dagli altri, una unicità irripetibile, persino nel caso dei gemelli monovulari (epigenetica). La medicina è incistata in un universalismo spacciato per egualitarismo che le impedisce di cogliere i contesti in cui interviene. Per poi ammettere, sempre a posteriori, che le situazioni ambientali, sociali, geografiche, emozionali giocano un ruolo immenso nella diversità delle risposte alla stessa infezione.
- Eppure questo procedimento, che è appunto conoscenza senza oggetto e pratica di uno schematismo enciclopedico vuoto, ha avuto successo pratico ed ha prevalso, perché ha consentito lo sviluppo della farmacologia chimica e poi biologica, con tutto ciò che ne consegue…. Il dogma della medicina pratica è diventato il trial clinico randomizzato (RCT), che permette di dimostrare statisticamente piccole differenze di efficacia tra i farmaci, somministrati a due gruppi di malati accomunati dalla stessa “malattia”. Così facendo, per definizione, il RCT annulla le differenze individuali e considera solo i parametri che accomunano il gruppo testato. È ovvio che il “prodotto” di tale procedura, si applica solo alla categoria di persone che avevano quelle caratteristiche e prescinde dal singolo individuo. Quanto più grande è il gruppo di malati su cui si è testato il farmaco, tanto più piccola è la differenza tra “verum” e “placebo” che può diventare statisticamente significativa. Così facendo, però, la cosiddetta “medicina basata sulle evidenze” (EBM) arriva al paradosso che un farmaco può funzionare in modo statisticamente provato in una certa “malattia” pur giovando solo all’1% dei malati. Gli altri 99 non avranno alcun beneficio, qualcuno avrà solo effetti avversi, ma il medico lo “deve” prescrivere perché fa parte dei protocolli provati. All’estremo opposto, se un medicinale non è stato “dimostrato efficace” con RCT, non può essere usato perché il medico rischia di essere perseguito se poi qualcosa non va. L’argomento con cui il ministro Speranza si oppose alle “cure domiciliari” della COVID-19, comprendenti integratori alimentari e farmaci antinfiammatori come l’idrossiclorochina, fu proprio che a parere del Ministero la loro efficacia non sarebbe stata rigorosamente provata. Salvo poi raccomandare il paracetamolo (comunque mai provato in tale malattia) e la “vigile attesa” che poi fu provato essere la causa della catastrofe sanitaria in Italia dei primi due anni. Anche l’omeopatia è stata spesso bersagliata da rappresentanti della medicina accademica e persino dalla stampa mainstream per la sua presunta inefficacia, come se invece dovesse funzionare sempre, mentre si arriva al paradosso che se un malato muore “nonostante” un antibiotico oppure un nuovo farmaco, anche se prescritto in modo inappropriato, nessuno è incriminato.
Eppure, chi ha seguito con attenzione lo sviluppo della cultura medica negli ultimi decenni sa bene che lo stesso concetto di EBM “hard” è stato criticato dagli stessi suoi inventori si è sviluppata una visione più aperta e complessa della scienza e arte medica[2-4], che potremmo rappresentare nella figura 1:
Ma accettare questa visione complessa significa rinunciare alla medicina ridotta alla EBM e ai protocolli, alla medicina come nosologia che ignora le cause e i meccanismi della malattia individuale. “Se qualcuno desidera recuperare la salute bisogna innanzitutto chiedergli se è pronto a eliminare le cause della sua malattia. Solo allora è possibile aiutarlo”. Ippocrate. Ma le cause cosa sono? Catena di cause Rete di cause (azione-reazione) nei sistemi omeodinamici, su tutte le scale. La fisiopatologia non può essere dimenticata. La “complessità in medicina”, comprendente la teoria del caos, frattali, effetto farfalla, l’invarianza di scala, l’informazione biologica, la genetica e i recettori, sono concetti modernissimi che riconciliano la Fisiopatologia con la Medicina omeopatica [5-9].
Questo quadro ci aiuta a inquadrare i problemi dell’omeopatia! Samuel Hahnemann ha vissuto in un’era in cui non c’erano nemmeno i successi tecnologici odierni. La medicina non era né arte, né scienza, era puro empirismo lasciato spesso all’improvvisazione. Allora ha inaugurato un altro approccio, basato sulla sua grande cultura botanica e chimica e sulla rivalutazione del principio ippocratico della similitudine, verificandolo con innumerevoli prove sperimentali. In questo era molto più scienziato dei suoi denigratori.
L’Omeopatia è Scienza (“A” in figura) a tutti gli effetti perché le sue basi scientifiche non solo sono state chiarite (il “SIMILE” e la “NON-LINEARITA’” della relazione dose-risposta) ma sono all’avanguardia della farmacologia e della biofisica. Il limite dell’omeopatia come scienza non sta nel principio della similitudine (chiarito) né della diluizione-dinamizzazione (anch’esso problema quasi completamente chiarito), ma sta nel fatto che si cimenta con la complessità clinica e l’individualizzazione del caso, per cui essa è nata. L’omeopatia ha molto sviluppato l’attenzione al rapporto medico-paziente (“C” in figura). Un buon medico omeopata, nel suo lavoro quotidiano utilizza la conoscenza dei “sacri testi” e della base di conoscenze accumulate nel giro di oltre due secoli nel corso di innumerevoli test sperimentali (“provings”). Ma egli/ella gioca anche se stesso/a, nel senso che diviene sempre più capace di “capire” il paziente che ha difronte, attingendo ad un bagaglio di esperienze personali e di capacità individuali, impossibile da ridurre a conoscenze bibliografiche.
Il problema è che il metodo clinico hahnemanniano era già maturo quando il Maestro era in vita, ma era tanto maturo che poi non è molto progredito nel campo delle prove di efficacia “canoniche”. O meglio, è progredito grazie all’impegno degli omeopati seguenti nella scoperta di molti altri medicinali e nella comprensione dei suoi limiti. L’individualizzazione porta con sé la difficoltà a svolgere i famosi RCT su gruppi omogenei di pazienti (“B” in figura).
La scelta dei rimedi per un soggetto, tra i duemila a disposizione, si basa su alcuni principi fondamentali ma lascia sempre un margine di incertezza. Tale incertezza della pratica medica omeopatica deriva dall’esistenza di errori nelle antiche materie mediche e pure dal fatto che il risultato della repertorizzazione è dato come probabilità, ma esso stesso dipende da quali sono i sintomi che si decide di inserire. Ma questa, va detto, non è una difficoltà insuperabile ed infatti molti studi si trovano in letteratura e alcuni sono stati svolti anche da questa Scuola. Il problema è che la lotta senza quartiere contro l’Omeopatia condotta dal mondo accademico, supportato da big-pharma, assieme alla difficoltà di svolgere studi negli ambulatori privati, ha fatto sì che la base di conoscenza sule evidenze ottenute secondo i parametri voluti dalla medicina convenzionale si ancora molto scarsa. E questo è uno dei più grandi problemi, più pratici che teorici, con cui si confronta l’omeopata.
Ad un certo punto, sia l’incertezza della gerarchia dei sintomi, sia l’incertezza matematica della repertorizzazione, sia la scarsità di “prove” cliniche su cui contare statisticamente, devono essere “saltate” da una scelta basata sull’esperienza e l’intuizione del medico. E qui interviene l’individualità dell’osservatore e la libertà di scelta. Questo margine di incertezza fa sì che si possa dire che il medico omeopata, più del medico convenzionale, è anche un artista, perché si occupa di qualità più che di quantità. Però, lo apprenderanno gli allievi, esistono dei metodi per cercare di essere più rigorosi possibile.
In realtà, entrambe le forme di conoscenza sono intersoggettive (arte comprensibile da tutti, conoscenza scientifica che dipende dall’osservatore). Quindi scienza e arte sono più vicine di quanto non si dica. Inoltre i saperi che esse producono sono complementari: poiché il mondo è complesso, non lo si può descrivere in un solo modo. Non si tratta di un contrasto con il sapere scientifico, si tratta di un’inevitabile appartenenza ad un dominio “ulteriore” al sapere scientifico, non in contrasto ma complementare. Per fare bene il medico, l’omeopata deve essere cosciente di dove si colloca la sua attività, e spero che questa breve introduzione possa essere stata utile almeno ad inquadrare il problema.
Bibliografia essenziale
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- Sackett, DL; Rosenberg, WM; Gray, JA; Haynes, RB; Richardson, WS. Evidence based medicine: what it is and what it isn’t. BMJ 1996;312:71-2.
- Eskinazi, D. Homeopathy re-revisited: is homeopathy compatible with biomedical observations? Arch Intern Med 1999;159:1981-1987.
- Jenicek, M. The hard art of soft science: Evidence-Based Medicine, Reasoned Medicine or both? J Eval Clin Pract 2006;12:410-9.
- Bellavite, P (2009) La complessità in medicina. Fondamenti di un approccio sistemico e dinamico alla salute, alla malattia e alle terapie integrate, Tecniche Nuove, Milano.
- Bellavite, P; Signorini, A (2002) The emerging science of homeopathy: complexity, biodynamics, and nanopharmacology, North Atlantic, Berkeley (CA).
- Bellavite, P. Homeopathy and integrative medicine: keeping an open mind. J Med Person 2015;13:1-6.
- Bellavite, P; Signorini, A; Marzotto, M; Moratti, E; Bonafini, C; Olioso, D. Cell sensitivity, non-linearity and inverse effects. Homeopathy 2015;104:139-160.
- Andreoli, B; Zanolin, E; Bellavite, P. A Pilot Study of Prospective Data Collection by Italian Homeopathic Doctors. Homeopathy 2018. 10.1055/s-0038-1667069 [doi].