Stiamo facendo il tifo per il clima
Alla fine si torna sempre lì, al Clima. Lo stesso Clima che abbiamo modificato con cieca brutalità nell’arco di pochi decenni, disinteressandoci delle conseguenze. Adesso pretendiamo che lo stesso Ambiente che abbiamo vessato, si erga a Deus ex machina intervenendo a salvarci dal flagello contemporaneo. Una strategia che, visto che il Pianeta pare tenere a noi più di quanto noi teniamo a lui, potrebbe anche funzionare. Qual è questa speranza che abbiamo sentito rimbalzare da diverse fonti in questi ultimi giorni? In sostanza si auspica che la diffusione del virus venga rallentata dal rialzo delle temperature in primavera/estate: Questa teoria pare trovare riscontro nello studio condotto dall’Università del Maryland, negli Stati Uniti, istituzione di punta del Global Virus Network.
Annientamento della biodiversità come fattore di rischio
Sulla possibilità di una pandemia, negli anni passati, siamo stati messi in guardia più volte. Scienziati di diverse estrazioni, dai climatologi agli epidemiologi, si sono sgolati per avvisarci che la costante perdita di biodiversità terrestre, unita a una penetrazione sempre più invasiva dell’Uomo in ecosistemi vergini sono deleterie. Infatti provocano, tra i tanti effetti nocivi, il cambiamento delle abitudini degli animali-vettori dei virus, aggravato dall’impennata degli spostamenti, umani e di merci, ci espone a rischi elevatissimi di propagazione di virus e batteri. Come spesso accade, però, abbiamo fatto orecchie da mercante, finché il problema non è venuto a bussare direttamente alla nostra porta. Ci siamo fatti trovare impreparati all’arrivo dell’emergenza, e ora cerchiamo di arginarla ricorrendo a misure draconiane, i cui, esiti non sono così scontati.
Il ruolo della politica nel contenimento del contagio
In questo contesto, le leadership mondiali mostrano tutta la loro inadeguatezza, reagendo con la tecnica dello struzzo (“è accaduto in Cina, poi in Italia, speriamo che da noi non accada”). Continuando poi con atteggiamenti ondivaghi, in ordine sparso, senza coordinare gli sforzi. Oltretutto rischiando così di vanificare anche le misure prese da chi ha cercato di agire con forza all’epidemia. Un dato che possiamo riscontrare anche, almeno nella fase iniziale all’interno della nostra nazione, con la polifonia dissonante dei provvedimenti di ogni singola regione.
Umidità e calore rallentano la marcia di COVID-19?
Lo studio, prima citato, dell’Università americana porta un raggio di luce ad illuminare questo dibattito. Secondo i professori del Maryland il COVID-19 dilagherebbe a macchia d’olio dove le temperature medie sono tra i 5 e gli 11 gradi e l’umidità tra il 47 e il 79%, mentre al di fuori di questa fascia la sua capacità di propagazione sarebbe molto rallentata. Questi due indicatori, combinati, delimitano una fascia latitudinale ben precisa in questo periodo dell’anno: quella tra i 30 e i 50 gradi di latitudine nord. In effetti tutti i focolai principali si trovano nell’area compresa tra questi due valori. È così per Wuhan, per Milano, ma anche per Seoul in Corea del Sud o Teheran in Iran, altri epicentri importanti di diffusione. Le aree al di fuori di questa fascia, comprese quelle che hanno scambi molto frequenti con la regione cinese di Wuhan, hanno avuto un numero di casi molto meno preoccupante. Zone come il Vietnam, o la Thailandia, che si trovano nella fascia tropicale o sub-tropicale, hanno temperature medie e umidità molto più elevate dei valori suddetti.
Per quanto tempo il Coronavirus può resistere sulle superfici?
Quello del Maryland non è ovviamente l’unico studio che abbia affrontato la correlazione fra clima e diffondersi del coronavirus. Secondo un’altra ricerca dell’Università di Guangzhou, in Cina, la temperatura “ideale” per il diffondersi del COVID-19 è di 8,72 gradi, una temperatura che si concilia perfettamente con quanto affermato dagli americani. Anche uno studio tedesco che è circolato molto all’inizio dell’epidemia, sostiene che il virus può resistere sulle superfici fino a 9 giorni, legava questa circostanza a una temperatura compatibile con questi valori. Quest’ultimo paper, che aveva suscitato grande apprensione, è stato per fortuna molto ridimensionato in un secondo momento. Sia perché si trattava di uno studio sui coronavirus in generale e non sul COVID-19, sia perché, è bene tenerlo presente, il fatto che vengano rilevate tracce di virus non vuol dire che queste siano sufficienti a causare la malattia. Perché l’infezione possa diffondersi nell’organismo, infatti, è necessaria una carica virale piuttosto elevata.
Abbiamo bisogno di una tregua. Ce la donerà il caldo?
Se tutto ciò trovasse conferma nei fatti, l’aumentare delle temperature potrebbe allentare l’emergenza e darci qualche mese per approntare nuove strategie di contrasto dell’emergenza. Non dobbiamo comunque sottovalutare due circostanze: innanzitutto che, nel momento in cui l’Italia uscirà dalla “fascia rossa”, altre nazioni vi entreranno. In Europa, per esempio, le condizioni favorevoli alla diffusione potrebbero spostarsi più a nord, verso Irlanda e Scozia, esponendo poi anche l’Italia ai “contagi di ritorno”. In secondo luogo con il caldo il virus potrebbe entrare in una fase dormiente come capita con le normali influenze stagionali, per poi ripresentarsi all’arrivo dell’autunno. In ogni caso in questo momento prendere tempo sarebbe di importanza cruciale, permettendoci di svuotare gli ospedali e di metterci al lavoro per cercare altre armi per vincere questa battaglia.