Il “caso coronavirus” valica i confini medici e diventa un grande caso politico. Perché l’allargarsi dell’epidemia, più che mandare in tilt il nostro sistema sanitario, che per ora ha retto l’urto (anche grazie all’impegno quasi eroico dei tanti medici in prima linea), rischia di precipitare in una crisi profonda la nostra già fragile economia. L’indice di borsa Ftse Mib, il nostro principale indicatore, ha perso nell’ultimo mese il 20 per cento, mettendo l’Italia in ginocchio sui mercati. Nello stesso periodo, ad esempio, il DAX, l’indice tedesco, ha perso circa il 7 per cento, mentre il CAC 40, che raccoglie le 40 aziende a più larga capitalizzazione francesi, circa l’8,5 per cento. Un divario enorme, sul quale ha pesato come un macigno il numero di contagi venuti alla luce nel Nord Italia, in particolare nel Lombardo-Veneto. In effetti la progressiva espansione nel virus qui da noi è stata così rapida da far tremare le ginocchia anche a chi non è di norma facilmente impressionabile: centinaia di nuovi casi al giorno, comuni posti in quarantena e serrande abbassate per centinaia di attività. E quindi, inevitabile, la fuga di capitali.
Resta ora da capire se questi dati così discrepanti tra paesi europei sul numero i malati sia un dato reale. Per avere un’idea dei numeri in questione, mentre scriviamo i contagi registrati in Italia sono 2502, contro i 212 della Francia e i 195 della Germania. Nel regno Unito, poi, sono appena 51. Come si è potuto verificare un tale scostamento tra paesi limitrofi, in cui merci e persone circolano liberamente, quando addirittura proprio l’Italia, fra questi, è stata l’unica nazione a chiudere da subito i voli dalla Cina? La risposta più semplice, e quindi anche la più verosimile, che gli epidemiologi si sono dati è che lo scostamento non si sia affatto verificato, se non nella percezione di esso. Secondo Walter Ricciardi, membro italiano del Consiglio Esecutivo dell’Organizzazione mondiale della Sanità e consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza, Questo nuovo coronavirus non è facilmente distinguibile dalla normale influenza stagionale, per sintomi portati e durata della malattia. È altamente probabile che nei primi periodi di espansione dell’infezione all’Estero non si siano premurati di verificare i casi che non presentavano alcuna criticità, la larga maggioranza. Da noi, invece, si è proceduto in maniera schizofrenica, conducendo in un primo momento tamponi a tappeto sulla popolazione delle zone più colpite, non solo su chi presentava sintomi lievi, ma addirittura su chi non li presentava affatto, per poi ritrattare le “regole d’ingaggio” e limitare i tamponi ai soli casi sintomatici o sospetti per vicinanza ad altra persona contagiata.
La frittata, però, ormai era fatta. Sui giornali di tutto il mondo rimbalzavano news di italiani respinti alle frontiere, contagi di ritorno per chi proveniva da Milano e zone rosse con ospedali al collasso. I nostri concittadini, insomma, sono diventati i “nuovi untori” del coronavirus, prendendo il posto dei cinesi, che invece hanno dato alla comunità internazionale una grande prova di forza riuscendo a esibire un’inversione della curva di diffusione della malattia. Poco importa che lo abbiano fatto stracciando le più basilari libertà individuali, tracciando i loro cittadini in ogni minimo spostamento e rastrellando le persone dalle proprie case anche solo per un lontano sospetto. Questo effetto è stato massimizzato da un fenomeno con cui oggi dobbiamo imparare a convivere, ben più virale del virus stesso: la velocissima diffusione delle informazioni su internet, spesso incomplete o totalmente false, e capaci di diffondere il panico in un batter d’occhio da un capo all’altro del mondo.