“Quel ramo del lago di Como…”. L’incipit, si sa, è un elemento chiave per garantire il successo a un’opera e quello su citato ci pare notevole e azzeccato ma è subito lui che cattura la nostra attenzione: il curato meditabondo che nel tardo pomeriggio del 7 novembre 1628 ripassa i salmi sulla via di ritorno verso casa interrompendosi di quando in quando per gettare uno sguardo alla campagna circostante.
Su quest’uomo di fede sta per abbattersi l’arroganza del potere nella persona di due masnadieri inviati da don Rodrigo, i bravi.
I due delinquenti, a dispetto della loro aria rilassata, sono vestiti di tutto punto con le insegne della violenza (la polvere da sparo appesa al collo a mo’ di collana, lo spadone, i baffoni arricciati e tutto il resto) e da lì a poco si esibiranno in una manifestazione da “poliziotto buono e poliziotto cattivo” antesignana di tante serie TV.
L’autore ci dipinge immediatamente un quadro limpido della persona di don Abbondio che rimarrà fedele a se stesso lungo tutte le vicende che si accavalleranno l’un l’altra.
Per prima cosa, alla vista dei due che gli sbarrano la strada, il curato si chiede se, per caso, “avesse peccato contro qualche potente”, poi si atteggia a persona tranquilla ed esordisce con un “Cosa comanda?” per finire con “… Disposto … disposto sempre all’ubbidienza”.
I suoi arzigogolati e sommessi argomenti non servono a schiodare i due bravi dal loro turpe incarico. E qui comincia una descrizione del carattere del personaggio già individuato dall’espressione “Il povero don Abbondio … non era nato con un cuor di leone”. Il fatto di essere pavido però non lo rende sciocco infatti nella sua personale rigorosa autovalutazione. Il nostro si rende presto conto di essere “un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”; non gli manca l’acume e s’industria per proteggere al massimo la propria quiete adottando “una neutralità disarmata”. La cosa migliore, quindi, è entrare nelle fila del clero che, in quei tempi complicati, “vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità”. In quel contesto don Abbondio non è un personaggio di vaglia ma, nel suo ambito territoriale, ricopre un ruolo autorevole e non perde occasione per farlo rimarcare alle persone di grado sociale inferiore.
Si tratta di un uomo che ha già superato i sessant’anni, età notevole per quell’epoca, canuto, tutt’altro che imponente. Sessant’anni trascorsi all’ombra di qualcuno più potente di lui ma con “un po’ di fiele in corpo”, un uomo che ha inghiottito tanti di quei bocconi amari nella vita che se non potesse sfogarsi di tanto in tanto la sua salute ne risentirebbe.
“Rigido censore” dei comportamenti altrui, bravissimo, nascondendosi dietro le parole, a trattar male persone che per estrazione sociale e per cultura gli sono inferiori e, comunque, quelli che “conosceva bene per incapaci di far male”.
Proseguendo con il racconto, don Abbondio torna a casa dopo la sua brutta avventura e lì trova Perpetua, altro personaggio degno di attenzione. Egli è chiaramente diffidente e, allo stesso tempo, bisognoso di conforto e di consiglio. Chiede subito qualcosa da mangiare, beve un bicchiere di vino tutto d’un fiato e non ha più fame. Va a letto in preda ad una febbre tanto improvvisa quanto violenta.
Le vicende del romanzo si snodano tra intrighi, vicende storiche, rapimenti, pentimenti e la comparsa di personaggi di ben altro calibro, ma don Abbondio rimane bene o male sempre in sottofondo, se non altro perché il suo categorico e, per certi versi, comico rifiuto di sposare i due promessi, Renzo e Lucia, finirà con l’innescare una serie di eventi a catena scombussolando di volta in volta le pedine sulla scacchiera.
Meravigliosamente descritto lo stato d’animo del curato quando sarà costretto a incontrare il suo diretto e reale “superiore”, Federigo Borromeo. “E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l’uffizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e confusione”.
Esilarante il suo comportamento durante la spedizione per la liberazione di Lucia: lo incontriamo pieno di angosce, diffidente, convinto com’è, di essersi cacciato nella terra del lupo, cavalcando “la mula di un letterato”, proprio una cavalcatura adatta a un filosofo di tale stazza, commosso fino alle lacrime dal concerto solenne cantato dai suoi confratelli.
Si ammala di peste, don Abbondio. L’Autore non ci fornisce elementi in proposito, lo ritroviamo quasi alla fine del libro che ne parla a Renzo: “Perfida e infame è stata … ora avevo proprio bisogno di un po’ di quiete, per rimettermi in tono…” e lì si dedica alla “filastrocca” dei nomi dei morti, non senza un certo compiacimento ci viene da pensare.
Non la smetterà ma di filosofeggiare, fino alla fine del romanzo, prendendosela con i potenti, la peste e la vecchiaia e se si adopererà nelle ultime pagine per togliere a Renzo la denuncia che gli pende sul capo, lo farà soprattutto per se stesso, per uscire con le mani pulite da tutta la faccenda.
Irritabile, diffidente, bilioso, umile con i forti e forte con i deboli.
Visita omeopatica
Si accomodi signor curato, è stato un vero piacere per me conoscerla. Non creda che non comprendo tutti i suoi dubbi anzi … le sono empaticamente vicina nelle sue angosce, i suoi timori. In effetti, quelli erano tempi piuttosto duri, sono d’accordo con Lei.
Mi sono accorta che non manca di una sua sensibilità ma, ahimè, mi pare che manchi di fiducia in se stesso anche se, lo sappiamo entrambi, il buon Dio è stato generoso con Lei dandole la possibilità di studiare quel suo latino che suona misterioso e gravido di pericolose trappole alle orecchie del suo debole gregge.
Mi dispiace per quella febbre improvvisa che i due delinquenti le hanno procurato.
Ho notato anche la sua rigorosa puntualità nel pretendere che il pasto le venga servito in orario da quella pettegola di una Perpetua: ha perfettamente ragione. Però si è saziato subito, con un semplice bicchiere di vino.
Già le spuntano timide lacrime di commozione adesso che si sente compreso ma glielo avevo preannunciato che noi omeopati siamo empatici per definizione.
Mi compiaccio con la capacità che ha avuto di vincere la peste bubbonica, evidentemente il suo fegato, abituato a tanti bocconi amari, ha tollerato anche la Yersinia Pestis.
Mi ricorda tanto quella pianta perenne, sempreverde e a portamento strisciante, che un tempo fu grande e adesso vive animosamente all’ombra dei grandi; ma forse questa è la sua salvezza.
La saluto rispettosamente don Abbondio e non dimentichi di passare in farmacia per prendere la sua dose di Lycopodium.
Auguri,
La sua omeopata
La descrizione del personaggio e la visita omeopatica seguente sono stati tratti dal libro “Materia Medica dei Promessi Sposi – Opera scherzosa” di Michela Casanica e Laura Naselli (Edizioni Libriomeopatia.it) –