La neve cade fitta, copre le strade e nasconde i pericoli. Avanzo con difficoltà sull’asfalto viscido. Ho la febbre alta. Mi sembra d’avere acqua bollente sulla testa e il volto infilato in una calza di nylon. Sopra un cartello, ai margini della piazza deserta, c’è scritto il nome di questo assurdo paese: Souven. La chiesa panciuta, a forma di matrioska, mi osserva austera. Poco più in là, la torre piegata è un profilo nero, inquietante e minacciosa come la morte. Souven è un buco di posto che non compare nelle carte geografiche. Souven è un minuscolo punto nero circondato da una marea bianca. Souven è la carie di un sorriso dannato. E’ il nulla! Percorro vicoli bui, m’insinuo come un verme tra le fessure della città, busso alle porte di case abbandonate, mentre le finestre chiuse sembrano osservarmi con gli occhi di un cieco. Compare un grosso cane nero. La belva apre le fauci mostrando denti immondi e sbava come se già stesse rosicchiando le mie povere ossa. Ritorno verso la piazza. La febbre ha trasformato la mia bocca nel deserto del Sahara. Bevo lunghe sorsate d’acqua da una fontana. Il liquido, fresco e dissetante, diventa una massa appiccicosa che mi blocca il respiro. Qualcuno avanza verso di me. Non vedo bene, tutto sembra offuscarsi, come se guardassi il mondo attraverso un paio di lenti sporche. L’individuo mi viene vicino. Mi fissa, i suoi occhi sono immobili buchi neri, mentre prende la mira e porta il coltello verso l’alto. Vedo la lama brillare di una luce sinistra sulla mia testa, sono prossimo alla morte, devo reagire. Gli afferro la mano. Mordo, sputo pezzi di carne, poi giù altri morsi. L’individuo urla a squarciagola come una vecchietta scippata della pensione. Corro verso una stradina in discesa, scivolo sul ghiaccio, sfreccio veloce in avanti, come se fossi sdraiato sopra un bob. La mia fuga finisce contro un’enorme parete di vetro che circonda tutta la città. Souven è un piccolo escremento incistato sotto una cupola di cristallo. Guardo verso l’alto e, per poco, non mi prende un colpo. Due occhi enormi mi stanno fissando. Il mio stomaco si contrae come se avessi ingerito una bottiglia di acido cloridrico. Una mano gigantesca afferra la cupola. La capovolge. Io sono sbattuto indietro e risucchiato verso l’alto. Finisco contro il soffitto della cupola alla velocità di un proiettile. La botta mi lava la mente e assorbe ogni allucinazione. Adesso non sono più solo. Loro, i miei fratelli, mi circondano e mi abbracciano. Da lassù si legge per intero il nome del paese scritto sul cartello: Souven…ir di Pisa.
Mi domando: che colpa ho, se durante la febbre alta, soffro d’allucinazioni e m’invento storie assurde? Qualcuno mi ha consigliato di curarmi con granuli di Stramonium. Intanto la cupola torna diritta ed io inizio a scendere, soffice e leggero, assieme agli altri fiocchi di neve.