Hahnemann sarebbe stato particolarmente colpito dall’entrata di Sylvia Plath, scrittrice giovane, alta ed elegante, ossessionata dalla ricerca di attrarre l’attenzione di chiunque con la sua bellezza e il suo talento artistico. Lei, ondeggiando i capelli biondo platino, avrebbe sussurrato al medico tedesco: “Credo che mi piacerebbe definirmi la ragazza che voleva essere Dio.” Aggiungendo, subito dopo, mentre allo specchio si controllava il rossetto rosso fuoco sulle labbra: “Che cos’è la vita? Per me è una quantità minima di idee. Le idee mi tiranneggiano – le idee del mio superego geloso da stronza-regina – quel che dovrei, quel che mi toccherebbe”.
Bambina tormentata dalla gelosia nei confronti del fratellino Joseph Warren, Sylvia Plath, adulta, sarebbe venuta da Hahnemann per curare la gelosia e l’invidia nei confronti dei successi letterari dell’adultero marito Ted Hughes. Questi sentimenti le avrebbero accresciuto il senso di solitudine e il desiderio di suicidio già presenti in lei fin dall’adolescenza.
“Morire / È un’arte, come qualsiasi altra cosa. / Ci riesco particolarmente bene.” La paura della morte era sempre presente nei suoi pensieri: “Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa, muore….Io sono il presente, ma so che anch’io me ne andrò. L’istante sublime, la fiamma che consuma arriva e subito scompare: sabbie mobili, sempre. E io non voglio morire.”
“Lei, oltre che nel vestire, è molto accurata anche nelle faccende di casa?” Avrebbe domandato Hahnemann, quasi automaticamente, più intento ad osservare la giovanile bellezza della donna che a pensare alla visita.
“L’astratto uccide, il concreto protegge. […] Quanto aiuta spolverare, lavare i piatti tutti i giorni, parlare con gli amici che non sono matti e [che] spolverano, lavano e pensano che questa sia la vita che c’è da vivere…”
Altri pensieri, intanto, si sarebbero rincorsi nella mente del medico tedesco. La scrittrice, trentenne, aveva quasi la stessa età di Melanie e Hahnemann, ottantenne, proprio in quel periodo avrebbe desiderato chiedere alla sua amata di sposarlo. Ma la differenza di età lo tratteneva dal porle quella domanda. Con aria falsamente distaccata il medico tedesco avrebbe domandato a Sylvia Plath: “Quali mie caratteristiche potrebbero attrarre una donna della sua età?”
La scrittrice l’avrebbe scrutato, spinta da una questione di gentilezza piuttosto che di curiosità, poi storcendo le labbra in una piega amara avrebbe detto: “Piccolo pellegrino, l’indiano ti ha scalpato. Il tuo bargiglio di tacchino è un tappeto srotolato dal cuore.”
“Sono così ripugnante?” Avrebbe domandato Hahnemann, umiliato e arrabbiato, lasciandosi sprofondare nella sua poltrona.
“Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti? Il fiato puzzolente in un giorno svanirà.”
“E la mia maturità? Essa non può essere una forma di attrazione?”
“Quale ciarpame da far fuori ad ogni decennio.”
“Ma allora che risposta potrei ottenere chiedendo la mano ad una donna molto più giovane di me?”
“Un bianco sputo d’indifferenza.”
Hahnemann, quasi sul punto di scoppiare in singhiozzi, avrebbe scritto la ricetta: “Prenda queste gocce di Arsenicum album ed esca subito dal mio studio, io non mi sento tanto bene.”
Le sue parole vennero sormontate dal rumore di una carrozza trainata da quattro cavalli lungo la strada. Prima di uscire Sylvia Plath avrebbe detto: “L’amore è un’ombra. Come lo insegui con menzogne e pianti. Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via come un cavallo.”