Anche se l’anziana signora che incontrate ogni giorno all’angolo della strada, o il vecchietto seduto alla panchina del parco sotto casa, passano il tempo a lamentarsi dei loro tanti piccoli o grandi acciacchi, è importante che abbiate sempre presente che la vecchiaia non è una malattia. Ripetiamolo, perché il concetto sia ben chiaro: la vecchiaia non è una malattia.
Il ruolo delle persone anziane nelle società industrializzate ha subito una profonda trasformazione. Per millenni, nelle società pre-industriali, l’anziano ha rappresentato il pilastro portante della società basata sulla famiglia. Il più anziano era anche il più saggio, il più rispettato, colui che dettava la linea a tutti i membri familiari, e che nessuno si permetteva di contraddire. E in molte parti del mondo, lontane dalle grandi metropoli e dai ritmi di vita forzati a cui siamo abituati, è ancora così.
Questo ordine ha subito pesanti scossoni nel mondo moderno. La società in cui viviamo oggi, che ha innalzato velocità e produttività a principi fondamentali e irrinunciabili, ha relegato la figura dell’anziano in un angolo, in ombra, orfano del suo posto di primo piano. L’esperienza sviluppata nel corso di una vita, che un tempo gli avrebbe portato prestigio sociale e familiare, e attraverso questi senso di soddisfazione e gratificazione, è oggi di scarso o nessun interesse, in un mondo che è cambiato molto più velocemente di quanto egli non sia riuscito a fare. Questo cambiamento radicale, ovviamente, non è stato senza conseguenze. La percezione di inutilità sociale genera nelle persone in età senile un aumento verticale di stress e depressione.
A ciò si aggiunge, aggravando la situazione, il cambiamento nella struttura stessa della famiglia. Se prima nella stessa abitazione convivevano più generazioni in un regime di collaborazione e supporto reciproci, oggi procediamo a passo svelto verso un’atomizzazione del nucleo familiare, con le persone di terza età frequentemente abbandonate a vivere da sole, in case fatiscenti, senza scambiare una parola con anima viva per l’intera giornata, che si ripete giorno dopo giorno sempre uguale. Oppure parcheggiate in strutture inefficienti, incapaci di trasmettere il calore di cui ogni essere umano ha bisogno.
I dati Istat, da questo punto di vista, restituiscono una fotografia impietosa della condizione senile in Italia. Condizione non diversa da quella che si ritrova in tutti i Paesi industrializzati. Circa il 38% degli over 75 vive solo; quasi il 40% non hanno né parenti né amici in caso di bisogno, mentre il 12% può rivolgersi solo a un vicino di casa.
L’Omeopatia, è noto, dà grande importanza alla relazione fra lo stato di benessere mentale e lo stato di benessere fisico. La medicina omeopatica di certo non permetterà di far svanire nel nulla questo tipo di problemi, né potrà garantire a tutti di superare i 100 anni. Del resto, è per lo meno dubbio che quello di sopravvivere sempre più a lungo possa essere considerato un obiettivo assoluto da perseguire. La vita ha un suo ciclo che va rispettato, che va dalla nascita alla morte, passando per tutte le fasi intermedie, ognuna con i suoi vantaggi e svantaggi. Quello su cui invece l’Omeopatia può sicuramente intervenire, con il suo insegnamento orientato alla prevenzione e alla considerazione della persona a tutto tondo, è l’aiutare la persona anziana a vivere con serenità e fiducia la propria età, a riconoscerne gli aspetti più gratificanti (come può essere la nascita di un nipotino o la possibilità di guidare i propri figli verso i momenti più felici della loro vita), cercando di alleviarne le possibili sofferenze attraverso un approccio costruito nel tempo, orientato al lungo periodo e calibrato equilibratamente sulla persona.