In ambito geriatrico, il 30% dei ricoveri ospedalieri e il 20% delle spese sanitarie superflue sono riconducibili a prescrizioni inappropriate. Senza arrivare a questi estremi, osserviamo che non pochi anziani sono trattati con una politerapia che può superare la quantità di dieci farmaci diversi da distribuire, con fatica, all’interno della giornata. Anche soltanto considerando il rischio di interazioni tra farmaci e la difficile compliance che deriva da una così complessa gestione, si tratta di dati allarmanti. A questi si aggiunga un fenomeno che rientra a pieno titolo tra gli effetti indesiderati generali: l’aumentato rischio di caduta prodotto da alcuni medicinali di uso comune presso gli anziani (benzodiazepine, antidepressivi, antipertensivi, ecc.), che ha condotto a compilare vere e proprie liste di Fall Risk Increasing Drugs.
Viva i pazienti spaventati
Il fatto è che i medici sono formati per prescrivere; e specularmente i pazienti sono inclini a pretendere una prescrizione, trasformandosi così da (presunti) malati a consumatori. Il fenomeno della medicalizzazione della società non è limitato agli anziani. Basti pensare alla patologizzazione di ogni esperienza che si situi al di fuori dell’ideale di una vita senza scosse: i bambini vivaci diventano iperattivi, le delusioni sentimentali garantiscono l’ingresso nella categoria “depressione”; e così via. Per ognuno di questi inconvenienti c’è un farmaco. È come se ciascuno di noi fosse dichiarato incapace di affrontare i saliscendi della vita senza tutela medica. Questo scenario si aggroviglia in modo particolare nella cosiddetta “terza età”, anche mercé l’enfasi posta sui “fattori di rischio”.
Non si può infatti trattare il tema dell’ipermedicalizzazione separandolo dalla questione della sovradiagnosi. A tale riguardo Nel settembre 2013 si è tenuta negli USA la prima conferenza internazionale Preventing Overdiagnosis. Ben prima (2002) il British Medical Journal aveva inaugurato la rubrica “Too much medicine” e a partire dal 2010 la rivista Archives of Internal Medicine ospita la rubrica “Less is more” (d’altronde, già Ippocrate ammoniva: “Per il malato, il meno è il meglio”). Segno che anche la medicina accademica si sta accorgendo del problema.
Il target governativo o la professione medica?
L’imperfezione dei test – unita al continuo abbassamento dei valori-soglia, che trasforma ogni disturbo o anomalia statistica in una malattia in agguato –, il trattamento farmacologico di deviazioni dalla norma (già; ma qual è la norma?) che ancora non si sono palesate in quadri clinici (con gli effetti collaterali del caso), l’aspettativa indotta negli utenti di soluzioni definitive sono altrettanti limiti alla forsennata corsa allo screening.
Nel 2009 Michael Oliver, professore emerito di cardiologia presso l’Università di Edimburgo, pubblica sul British Medical Journal un articolo in cui descrive, con humour britannico, l’odissea di un gruppo di pensionati in buona salute convocati dal proprio medico di base per un check-up annuale e trasformati ipso facto in malati spaventati e bisognosi di esami diagnostici, terapie farmacologiche e drastiche proibizioni delle loro abitudini voluttuarie.
“Che razza di medicina è questa, dove la politica prevale sulla professionalità, l’ossessione per i target governativi si sostituisce al buon senso e il paternalismo rimpiazza la responsabilità personale? Sembra che la maggior parte dei Governi occidentali consideri tutte le persone al di sopra dei 75 anni come pazienti”. Una malintesa interpretazione dell’idea di medicina preventiva concorre dunque a trasformare i sani in malati.
Come ammoniva già nel 1976 Ivan Illich: “Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di un’epidemia”. L’ansia e il senso di incertezza legati agli esami diagnostici non necessari concorrono a determinare un cortocircuito PNEI che può, quello sì, divenire patogeno. Alcuni anni fa una ricerca stabilì che gli uomini che abbiano ricevuto una diagnosi di carcinoma prostatico – un tumore che spesso rimane indolente – sviluppano un rischio di infarto doppio rispetto alla popolazione normale. Lo stesso Richard J. Ablin, lo scienziato statunitense che scoprì nel 1970 il PSA, stigmatizza l’uso dell’antigene prostatico, che negli anni si è rivelato tutt’altro che “specifico”, come arma di screening di massa.
Il check-up uno strumento tanto prezioso quanto insidioso
Siamo divenuti tutti consumatori di check-up. Che questa distorsione della medicina preventiva (non sto naturalmente sostenendo che non si debbano mai fare esami, soprattutto se richiesti per dirimere dubbi diagnostici: dunque in appoggio a un ragionamento clinico) sia funzionale al disease mongering è più di un sospetto. L’espressione, traducibile come “mercificazione della malattia”, fu coniata nel 1992 da Lynn Payer per indicare una tendenza del marketing farmaceutico a “creare” malattie in parallelo alla creazione di nuove molecole atte a curarle. Il gioco è semplice: si amplifica un disturbo o di un fattore di rischio, se ne sottolinea la pericolosità attraverso una studiata campagna “informativa” affidata a giornalisti conniventi o semplicemente ignoranti e si piazza il prodotto, sottacendone i possibili rischi iatrogeni.
Condizioni parafisiologiche come gravidanza, ciclo mestruale e menopausa (col suo correlato di osteoporosi, spettro agitato anche in presenza di osteopenia, assolutamente normale in maschi e femmine di 50 anni) sono un campo di ideale di scorribande da parte di Big Pharma.
Non dissimile l’aggressività con cui si affrontano i potenziali fattori di rischio cardiovascolare, che andrebbero valutati in una prospettiva anamnestica di insieme e non come singoli nemici da abbattere. Abbastanza ridicola la giostra sui valori “normali” di colesterolo totale, passati negli anni da 250 a 240, a 220, a 200 e ora a 190 mg.% (spesso senza valutarli in correlazione a stile di vita, familiarità e dati ricavati dal Doppler dei vasi epiaortici): un palese assist nei confronti dei produttori di statine. Lo stesso discorso vale per i valori di pressione arteriosa.
La visione integrata della cura
Il discorso è lungo e complesso e si potrebbe e dovrebbe estendere alla critica di una società che non accetta i limiti della vita (e della morte), facendosi portatrice di una hybris prometeica che finisce per promettere più di quel che può mantenere; sottraendo nel contempo ai cittadini l’autonomia di giudizio sulla propria salute.
In estrema sintesi, auspico il passaggio da una medicina centrata sulla malattia a una medicina centrata sulla persona, nella quale la relazione e l’educazione a una salute responsabilmente perseguita siano più importanti dei numeri e delle linee guida. Questa medicina, che il buon senso clinico provvederà, ove necessario, a integrare con ciò che la medicina moderna offre in termini di diagnosi e cure, esiste da oltre due secoli e ha un nome: Omeopatia.
Su disease mongering vedi Marco Bobbio, dal significativo titolo “Il malato immaginato” (Einaudi, Torino 2010).
Sull’invito a passare dalla patologia alla clinica cfr. Turinese, L.: “Modelli psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica”, Elsevier-Masson, Milano 2009.
Su Colesterolo vedi Marco Bobbio “Leggenda e realtà del colesterolo. Le labili certezze della medicina” (Bollati Boringhieri, Torino 1993).
Vedi anche:
Illich, I. (1976): “Nemesi medica”, Mondadori, Milano 1977.
Richard J. Ablin (2014): “Il grande inganno sulla prostata”, Raffaello Cortina, Milano 2016.